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Intervista ne Il Manifesto (29 avr. 2020)

Antonio Casilli: i nuovi conflitti del lavoro digitale nella società virale | il manifesto

Roberto Ciccarelli


Verso il primo Maggio 2020. Intervista al sociologo Antonio Casilli: «Economie delle app, grande distribuzione, e-commerce. Organizziamoci senza essere subalterni alla retorica dell’innovazione. A Madrid i rider hanno scioperato in quarantena. Azioni sindacali sono previste anche il primo maggio negli Stati Uniti»

Antonio Casilli (Università Paris Télécom)
Antonio Casilli (Università Paris Télécom)

Edizione del 29.04.2020

Pubblicato 28.4.2020, 23:07

Aggiornato 30.4.2020, 8:31

La crisi pandemica ha fatto emergere un mercato del lavoro a tre teste – afferma Antonio Casilli, docente di sociologia presso l’università Télécom Paris – Ci sono persone che possono tele-lavorare da casa durante la quarantena. Lo “smart working” è molto celebrato, ma la possibilità di ricorrere a questo uso delle piattaforme digitali non supera in media il 30 per cento della forza lavoro dipendente. Nel lungo post-quarantena lo “smart working” potrebbe essere imposto e non scelto. In alcuni casi potrebbe essere il preludio al licenziamento, al part time involontario o al taglio del costo del lavoro».

Quali sono le altre teste?
La seconda è costituita da lavoratori precari o dipendenti già attivi che non possono tele-lavorare. Il personale medico, quello della grande distribuzione, i trasporti pubblici e i lavoratori di prossimità. Tra questi ci sono i lavoratori delle consegne dell’ultimo chilometro: i rider in moto o in bici, i driver con i camioncini che Amazon considera “liberi professionisti” o conto-terzisti e sono invece alle sue dipendenze. Consegnano le merci a chi è in quarantena e sono diventati più visibili quando le folle sono scomparse dalle città. La terza testa è quella dei lavoratori dell’automazione che moderano i commenti sui social network o allenano gli algoritmi a diventare “intelligenti”. Oggi il traffico di dati è enormemente aumentato a causa della reclusione di miliardi di persone. Questi “operai” digitali, a volte dei cottimisti pagati a clic, operano in tutto il mondo e, pur essendo molto numerosi, sono a volte impossibilitati a radunarsi nelle fabbriche del clic dove operano in Spagna, in Irlanda, paesi anche loro in quarantena. E, se operano da casa, o da smartphone, sono pochi per gestire lo spam e le fake news che si sviluppano nelle relazioni digitali.

Che ruolo occupa il lavoro di cura in questa divisione del lavoro in quarantena?
La gestione delle relazioni familiari e delle mansioni è distribuita in maniera diseguale e il peso è ancora più forte sulle donne. Ha ragione chi rivendica il riconoscimento di un reddito per permettere l’autodeterminazione delle donne in un contesto drammatico dove aumentano le violenze domestiche e gli omicidi. In molti casi le donne lavorano nei settori di prossimità, nella grande distribuzione o nel settore sanitario. I sindacati stanno chiedendo aumenti, tutele e la regolarizzazione di lavoratrici che sono costrette ad operare nell’economia informale. La soluzione può essere dunque duplice: da una parte ci vuole un reddito che permette l’autodeterminazione, dall’altra i diritti del lavoro.

È emersa la divisione tra chi non ha sussidi ed è in povertà e chi può comunque accedere a una precarietà piattaformizzata per cercare di guadagnare. Qual è il ruolo delle piattaforme digitali in questa nuova stratificazione sociale?
Nominalmente, aiutare i lavoratori. In realtà, rafforzare il loro sfruttamento. In un contesto dove a un enorme numero di persone, anche lavoratori autonomi, sono stati estesi in maniera eccezionale i classici sussidi sociali, esiste una moltitudine di persone che non hanno accesso al welfare. Il lavoro digitale è un’opportunità per sbarcare il lunario e una giustificazione legale per uscire di casa. Assistiamo anche a una trasformazione delle piattaforme. Uber, specializzata nel trasporto privato non di linea, sta cercando di reinventarsi come trasportatore di merci dell’ultimo chilometro.

Quali sono i rischi che corre chi lavora per queste piattaforme?
Prendiamo il caso del «Contactless delivery», la consegna senza contatto. I fattorini non consegnano direttamente, ma lasciano la merce fuori dalla porta o nel portone. Ma la sicurezza è solo per il consumatore. Questi lavoratori devono relazionarsi con i ristoratori o gli hub di consegna, viaggiare in città, correre ogni tipo di rischio. Dare il monopolio a queste piattaforme significa riconoscere il monopolio di usare un linguaggio che stravolge la realtà.

Perché i gig workers protestano in molti paesi?
Le piattaforme cercano di abbassare il prezzo del lavoro, quando la domanda aumenta. In Spagna accade con Glovo che ha dimezzato la tariffa base e sta provocando ondate di scioperi. A Madrid c’è stato il primo sciopero di strada in una città in quarantena. Azioni sindacali che prima erano scioperi selvaggi si stanno organizzando per il primo maggio anche negli Stati Uniti. Si aprono nuovi fronti di conflitto attorno le piattaforme e contro la loro visione angelicata dell’innovazione. È uno scenario comune all’economia delle app, alla grande distribuzione e all’e-commerce su Instacart, Amazon o Whole Foods.

In che modo è possibile riconoscere i diritti dei lavoratori digitali dell’ultimo chilometro?
Questo era un problema scottante prima dell’epidemia, ora è ancora più urgente. Esistono due orientamenti: fare rientrare il lavoro della consegna dell’ultimo chilometro in quello subordinato, garantendo le tutele. È la posizione prevalente tra i sindacati e in alcuni attori della società civile. Non tutti sono però d’accordo. Tra i lavoratori alcuni chiedono addirittura la chiusura o la collettivizzazione delle piattaforme e l’estensione dei diritti oltre il lavoro salariato. In entrambi i casi non si hanno conseguenze negative. In un contesto come quello attuale, con una recessione mai vista, essere riconosciuti salariati di aziende che possono scomparire da un momento all’altro, potrebbe non essere l’unica soluzione.

Didattica a distanza, piattaforme, social media, logistica. Il capitalismo digitale sarà uno dei vincitori della crisi?
È una conclusione probabile. È in atto una cattura sociale e un’appropriazione del valore. Una serie di servizi offerti in modalità alternative sono stati sussunti da WhatsApp, Instagram, Zoom e compagnia. È urgente capire come organizzare diversamente una società evitando la subalternità alle retoriche sull’automazione che occultano l’attività di persone senza diritti ma svolgono un lavoro fondamentale.

“I lavoratori sono il cuore dell’algoritmo” : intervista ne Il Manifesto (Italia, 9 dicembre 2017)

[NB: This interview has been translated in English, Spanish, and Portuguese]

Nel quotidiano Il Manifesto di sabato 9 dicembre 2017, c’è una mia lunga intervista proposta da Roberto Ciccarelli. Eccola in versione integrale.

Antonio Casilli: «I robot non rubano il lavoro. Siamo noi il cuore dell’algoritmo»

Roberto Ciccarelli 09.12.2017

Lavoro digitale. Intervista ad Antonio Casilli, autore di ricerche pionieristiche sul nuovo capitalismo e sulle lotte da Amazon a Uber. “I lavoratori creano i criteri sulla base dei quali operano le macchine. E poi le educano ad apprendere come migliorare”

Antonio Casilli, professore alla Télécom ParisTech, è considerato uno dei maggiori esperti di capitalismo delle piattaforme. È noto per le ricerche pionieristiche sul «lavoro digitale» che rovesciano il senso comune apocalittico secondo il quale il lavoro è finito a causa dell’automazione. «Siamo noi a formare i robot con il nostro lavoro – sostiene – Produciamo i criteri sulla base dei quali operano. E poi li educhiamo ad apprendere come migliorare. Il problema non è che i robot ci rubano il lavoro, noi continuiamo a lavorare sempre di più e le piattaforme frammentano e rendono invisibile il lavoro necessario per fare funzionare gli algoritmi».

In Italia hanno fatto molto discutere i licenziamenti di due lavoratori Ikea, Marica a Corsico (Milano) e Claudio a Bari. Sono stati licenziati perché le loro vite non si sono incastrate con l’algoritmo che governa la forza lavoro. Siamo tornati all’Ottocento?
Il capitalismo delle piattaforme digitali irrigidisce la disciplina del lavoro, impone una misura e una valutazione apparentemente «scientifiche» che possono assomigliare alle vecchie manifatture industriali. La differenza fondamentale è che i lavoratori, in cambio della sottomissione alla disciplina, non ottengono la protezione sociale e la rappresentatività politica che prima ottenevano in cambio della subordinazione. Questo nuovo taylorismo ha tutti gli svantaggi e nessuna delle compensazioni del vecchio. I lavoratori sono prigionieri di una contraddizione in termini: subordinati e precari al tempo stesso.

Dopo lo sciopero Amazon a Piacenza ha consigliato ai sindacati di fare attenzione anche alla politica dei dati, non solo a quella del lavoro. Cosa significa?
A Piacenza si è vista solo la parte visibile dell’iceberg. Quello è stato uno sciopero in un luogo fisico per ottenere condizioni di lavoro su attività materiali. Esiste tutta una altra parte di Amazon che da anni è in lotta. Penso ai micro-cottimisti di Amazon Mechanical Turk, un sistema di creazione e addestramento di intelligenze artificiali alimentato da micro-lavoratori, persone pagate a cottimo per qualche centesimo per realizzare mansioni di gestione dati, immagini o testi. Questi lavoratori devono auto-organizzarsi per ottenere migliori compensi e condizioni di lavoro più umane. Su questo i sindacati devono recuperare terreno perché i “Turkers” svolgono mansioni troppo piccole per essere visibili ai loro occhi.

Lo stanno facendo?
Sì, anche se al momento con iniziative diverse su scala nazionale. In Germania i metalmeccanici dell’IgMetall ha messo a disposizione una piattaforma per le rivendicazioni: FairCrowdWork. In Francia la Cgt ha creato Syndicoop che aiuta i sindacalisti a federare lavoratori attorno a una campagna. In Belgio c’è SMart: una cooperativa, e non un sindacato, che si occupa di lavoratori freelance e lavora anche con i rider delle consegne a domicilio. È in atto un processo dove i sindacati classici cercano di “piattaformizzarsi”, mentre le cooperative creano servizi su base mutualistica per i lavoratori delle piattaforme.

Dalle lotte dei rider italiani è emersa la richiesta di essere inquadrati nel contratto della logistica. È così in Francia e negli altri paesi?
Nell’economia alla domanda i servizi basati su piattaforme e prodotti in tempo reale sono al centro di una grande controversia legale e politica sulla contrattualizzazione dei lavoratori. Fino a ora l’obiettivo è regolarizzare la loro posizione in un contratto di settore che assomigli a quello della piattaforma. Su Uber in America, in Europa e in Corea le lotte sindacali convergono sul riconoscimento da lavoratori del settore dei trasporti urbani. In Amazon si cerca il riconoscimento del contratto degli operatori postali. Serve allargare ancora lo schema di azione.

In che modo?
Riconoscendo tutti i micro-lavori fatti dai «lavoratori del click», anche quelli pagati a cottimo per qualche centesimo per realizzare mansioni come la gestione dei dati, delle immagini o dei testi. Il loro lavoro serve al machine learning, a insegnare alla macchina ad apprendere e a creare l’intelligenza artificiale.

E come si fa?
Tutto passa dalla quantità di informazione prodotta. E su come e quanto le piattaforme approfittano di questa produzione di dati. Uber prende tra il 20 e il 40 per cento su ogni transazione che avviene sulla piattaforma e conosce bene il valore prodotto. Bisogna redistribuire una parte della ricchezza prodotta ai lavoratori delle piattaforme. Pur non essendo salariale questa redistribuzione sarebbe senz’altro più equa di quella esistente.

Quali sono altri esempi di micro-lavoro digitale?
Ce ne sono tantissimi. È un mercato globale che contiene almeno 100 milioni di lavoratori. In Cina, in India,nelle Filippine, in Indonesia esistono piattaforme e servizi poco conosciuti in Europa. Sviluppano lavori estremamente diversi che permettono alle economie digitali occidentali di funzionare. In questi paesi è possibile incontrare il valutatore (rater) del motore di ricerca di Google. Sono i lavoratori che controllano che i risultati di una ricerca siano giusti e correggono il tiro aggiustando l’algoritmo. Oppure ci sono i moderatori di contenuti su Facebook o su Youtube che passano le loro giornate a giudicare se un video o una foto rispettano le condizioni di uso delle piattaforme. Insegnano agli algoritmi di filtraggio quali sono i contenuti da censurare. Possiamo anche parlare dei clickworkers che condividono, mettono “like”, spingono messaggi pubblicitari o video di celebrità per i quali sono pagati anche meno di un centesimo al click. Sono il vero carburante del marketing virale che fa vivere le marche più famose sui social network.

L’economia alla domanda è anche un’economia della reputazione e dell’attenzione dove è centrale la figura del consumatore. In che modo i lavoratori possono coinvolgerli nelle loro rivendicazioni?
Prima di tutto riconoscendo che il consumatore fa lo stesso lavoro del fattorino di Deliveroo o del micro-cottimista di Amazon Mechanical Turk.

In cosa consiste il lavoro del consumatore?
Anche lui produce dati. Questi dati sono usati per addestrare l’intelligenza artificiale. Il consumatore produce una massa critica di scambi e transazioni che permettono alla piattaforma di esistere sul mercato. Un consumatore è parte attiva e cruciale dell’esistenza dell’algoritmo. Svolge quotidianamente una quantità enorme di gesti produttivi che sono assimilabili a quelli dei lavoratori digitali. Anche chi usa Youtube modera gratuitamente i video, segnala quelli che non sono appropriati. Chi si serve di Google allena l’algoritmo del motore di ricerca a imparare i termini più ricercati sulla base delle parole inserite da noi e da altri. Il consumatore è un produttore. Le frontiere tra questi soggetti dell’economia convergono al punto che si potrebbe dire che quando la piattaforma non vuole pagarti ti chiama consumatore e invece quando è disposta a pagarti (poco) ti chiama cottimista o micro-lavoratore.

Ha parlato di “lavoro gratuito”. Qual è il ruolo che occupa nell’economia digitale?

Il lavoro gratuito è stato definito da Tiziana Terranova già vent’anni fa. Anche allora stare in rete era un lavoro perché produceva contenuti per i siti e quelli che all’epoca si chiamavano “portali”. Negli ultimi dieci anni questa idea del lavoro gratuito è cambiata quando ci siamo resi conto che le piattaforme non commercializzano solo i nostri contenuti, ma commercializzano soprattutto i nostri dati personali e le informazioni. Quali marche ci piacciono o a che ora ascoltiamo musica. Dove siamo con il Gps. Il lavoro gratuito dell’utente di internet non è un lavoro creativo, ma è un lavoro inconscio e molto meno soddisfacente perché invisibile. In quanto tale alienante nella misura in cui non ci rendiamo conto a cosa servono e come sono usati i dati quando facciamo un recaptcha su Google o mettiamo una Tag su un’immagine su Instagram.

Per cosa sono usati questi dati?
Per produrre valore monetario per le grandi piattaforme che fanno compravendita di informazioni ma sono anche usati per creare il valore di automazione: addestrare intelligenze artificiali, insegnare alle chat box a dialogare con gli esseri umani, creare assistenti virtuali come Siri sull’Iphone o Alexa su Amazon che parlano con noi e ci aiutano a fare scelte anche al posto nostro.


Il tratto comune tra le lotte dei ciclo-fattorini di Foodora o di Deliveroo, quelle di Amazon e quelle nei paesi dei “lavoratori del click, è dunque il lavoro digitale?

Sì, queste lotte sono accomunate da una forma di lavoro diversa rispetto a quelle a cui eravamo abituati nel secolo scorso. Oggi il lavoro digitale passa attraverso le piattaforme digitali che vanno considerate come un tipo di organizzazione produttiva. In più, le piattaforme sono imprese e mercati. Amazon è un’impresa delle più tradizionali con una cultura brutale della disciplina del lavoro, lo si vede ad esempio nei magazzini ma anche negli uffici. Ma Amazon è anche un mercato, un marketplace basato su un enorme catalogo e su compravendite meno conosciute, quelle dei dati. Deliveroo è la stessa cosa: è un impresa, con dipendenti, risorse materiali e immateriali ed è al tempo stesso un mercato del lavoro che connette clienti, attività produttive e fattorini. In questo caso la piattaforma opera un matching algoritmico, crea una correlazione tra soggetti diversi. In Amazon la correlazione è tra chi produce un prodotto e chi lo compra.

Lei è un sostenitore del reddito di base. In che modo può tutelare la forza lavoro digitale intermittente e precaria?
Riconoscendo il lavoro dei dati che passa dalle piattaforme. Lo ha già sostenuto un rapporto del ministero francese delle finanze nel 2013 e un rapporto della fondazione Rockfeller l’anno scorso. I giganti del digitale non vanno tassati sulla base di quanti data center o uffici hanno in un paese, ma sulla base dei dati prodotti dagli utenti delle piattaforme. Se in Italia ci sono 30 milioni di utenti di Google, è giusto tassare Google sulla base dei profitti ottenuti grazie alla loro attività. Così si può finanziare un reddito di base, un reddito digitale connesso al lavoro digitale che ciascuno di noi svolge su Internet o sulle «app» mobili.

***Antonio Casilli ha scritto, tra l’altro, Qu’est-ce que le digital labor? Editions de l’INA con D. Cardon, 2015; Stop Mobbing (DeriveApprodi, 2000); La Fabbrica Libertina (Manifestolibri, 1997)