Monthly Archives: June 2017

Il lavoro spezzato (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 26 juin 2017)

A l’occasion de mon intervention lors du Jobless Society Forum de Milan (30 mai 2017), la chercheuse Valentina Colombi a produit ce texte qui développe les sujets traités dans ma présentation. Le texte (en italien) est accompagné par deux courts extraits d’une vidéo interview que j’ai accordée en marge de la conférence.

Il lavoro spezzato.
Micro-lavoro e pluriattività dall’età industriale all’era digitale
 L’automazione del lavoro nell’era del click

L’integrazione tra lavoro umano e lavoro meccanico ha avviato, dalla prima rivoluzione industriale in poi, una serie di trasformazioni ben più complesse della semplice profezia della “grande sostituzione” degli esseri umani per mano dei processi automatici.

Con buona pace di tutte le teorie millenaristiche e fantascientifiche sulla fine del lavoro umano nell’era delle macchine, l’automazione non coincide – neanche ora, in tempi di dispositivi sempre più intelligenti – con una completa autonomia del lavoro meccanico da quello dell’uomo.  Certo, per tener dietro a un progresso sempre più incalzante, l’uomo ha dovuto procurarsi un grado crescente di alfabetizzazione tecnologica. Ma sinora, anche il lavoro dei macchinari più raffinati ha avuto e ha ancora bisogno di interventi “qualitativi” che non possono essere svolti meccanicamente. E così, il “fattore umano” ha difeso e per certi versi addirittura valorizzato il suo spazio nel lavoro industriale.

L’altra faccia della medaglia è che tutti i processi che sono man mano rimasti fuori da questo ambito di “responsabilizzazione tecnologica” si sono trasformati in lavori marginali, “micro-lavori” nel senso proprio della loro riduzione a un gesto, a un segmento produttivo minimo, talmente insignificante da non poter dar luogo a una pur minima cultura del lavoro.

Su attività così dequalificate non è possibile costruirsi un’identità lavorativa. Esse diventano tipiche di fasi precarie della vita produttiva, di soggetti che entrano ed escono dal mercato del lavoro o che per restare nel mercato del lavoro devono adattarsi a uno scenario frammentato, a cambiare continuamente attività o a svolgere più attività contemporaneamente.

La rivoluzione digitale non ha fatto altro che adattare a questo quadro i lavori legati alle nuove tecnologie. Anzi, l’automazione sempre più raffinata, l’intelligenza artificiale e la smaterializzazione produttiva – ciò che si produce sono dati e non più beni materiali – hanno, se possibile, banalizzato ulteriormente la mansione minima passibile di diventare “lavoro”. Il sociologo Antonio Casilli (Télécom ParisTech) parla – a proposito di questa parcellizzazione del processo produttivo portata agli estremi – di taskification e addirittura di clickizzazione del lavoro, un processo sta condizionando ogni ambito produttivo e professionale che comporti un’interazione con le piattaforme digitali.

Antonio Casilli: Uomini e macchine dalla fabbrica al click

I micro-lavori del click sfuggono alle tradizionali forme di tutela del lavoro, creando situazioni di sfruttamento che la normativa e gli organismi di rappresentanza sindacale faticano a inquadrare e dunque a contrastare. Non solo: oggi lavorare ai margini significa anche che le mansioni più riduttive e spersonalizzanti sono affidate a lavoratori che operano nei distretti periferici dell’economia globale, dove diritti e tutele del lavoro hanno ancora molta strada da fare. Per questo la politica – nota ancora Casilli – non può che trovare risposte sul piano internazionale.

Antonio Casilli: Frammentazione del lavoro: come interviene la politica?

 

La simbiosi-uomo macchina nel sistema di fabbrica

Questa estrema marginalizzazione del lavoro umano nel sistema meccanico è un fatto per certi versi connaturato al sistema stesso. Fin dagli albori dell’età industriale, l’automazione ha comportato anche una scomposizione del processo produttivo in fasi, le quali non sono più legate alle abilità umane – e dunque a un “mestiere” che su quel dato processo produttivo costruisce una vera e propria cultura di gesti e di saperi –, ma dipendono invece dalla possibilità di sviluppare un macchinario in grado di svolgere quell’attività. Il lavoratore viene posto ai margini del processo creativo che fino ad allora aveva caratterizzato ogni genere di produzione: non è più responsabile della bontà o meno del risultato, nemmeno di una parte di esso.

Lo notava già, con toni entusiastici, il chimico e divulgatore Andrew Ure nel 1835, autore di un trattato sul sistema manifatturiero che in quella prima metà del XIX secolo stava ormai rivoluzionando l’economia del mondo.

Il principio del sistema di fabbrica è quello di sostituire la scienza meccanica all’abilità manuale e di ripartire il processo nei suoi elementi costituivi, al fine di suddividere o di impostare per gradi il lavoro tra gli artigiani. […] Nel modello dell’automazione, il lavoro specializzato viene progressivamente superato e alla fine rimpiazzato dalla presenza di meri controllori del lavoro meccanico. A causa dell’imperfezione della natura umana, succede che più il lavoratore è abile, più esso è incline a diventare ambizioso e indocile, e meno si dimostra in grado adeguarsi a rappresentare un componente di un sistema meccanico, all’interno del quale, in conseguenza di irregolarità occasionali, egli rischia di arrecare un grave danno all’intero processo. Pertanto, il grande obiettivo del moderno imprenditore manifatturiero è – unendo capitale e progresso scientifico – quello di ridurre le mansioni dei suoi lavoranti all’esercizio della vigilanza e della destrezza; facoltà che, se concentrate in un unico processo, possono essere rapidamente sviluppate a perfezione in un giovane. […]

Andrew Ure, The philosophy of manifacturing, London 1835 (dal patrimonio Fondazione G. Feltrinelli)

 

Telai meccanici nella fabbrica di Stockport, 1835, immagine tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

L’uomo è al servizio della macchina e nel migliore dei casi può esercitare su di essa un’attività di controllo che richiede qualche conoscenza e una certa esperienza (l’alfabetizzazione tecnologica di cui si diceva); nel peggiore, deve solo essere in grado di integrare il suo lavoro con quello della macchina, adeguarsi alla sua velocità e precisione, con una buona dose di “atleticità” ma senza che siano necessari speciali saperi e apprendistati. Scrive ancora Ure:

Mr. Anthony Strutt, responsabile del dipartimento macchine delle grandi fabbriche cotoniere di Belper e Milford, ha preso tali distanze dalla tradizionale consuetudine scolastica da rifiutarsi di assumere uomini che hanno imparato il mestiere in un regolare apprendistato. Invece, a spregio – per così dire – del principio della divisione del lavoro, ha messo un contadinello a far ruotare un albero che pesa probabilmente parecchie tonnellate; e non ha mai motivo di pentirsi di questa scelta, perché il giovane esercita su quell’apparato girevole un’azione talmente precisa da risultare eguale se non superiore alla perizia di qualsiasi operaio qualificato.

Largo ai deboli

Nel ragionamento di Ure l’osservazione dell’efficienza e della forza dell’automazione sfocia in un’esaltazione della gioventù come età della forza e della “destrezza”, finalmente messa al centro di un sistema produttivo capace di minare le basi della tradizionale trasmissione del sapere, dagli anziani ai giovani.

Naturalmente, noi che la leggiamo oggi cogliamo nell’immagine del “contadinello” che lavora al grosso albero meccanico una realtà del lavoro industriale ben diversa dalla radiosa visione proposta dal divulgatore inglese. Come sappiamo bene, l’industria alla conquista del globo fagocitava rapidamente i soggetti sociali più fragili – i bambini, le donne – non certo per valorizzarne il contributo ma per abbattere i costi e aumentare il profitto. Con buona pace di Ure, la gioventù sarà a lungo nella storia del lavoro di fabbrica un elemento di marginalità e un fattore di debolezza contrattuale.

Cinquant’anni più tardi Ettore Friedländer, allora direttore dell’Agenzia Stefani e attento osservatore della realtà contemporanea, in un suo libro dedicato a Il lavoro delle donne e dei fanciulli (Roma 1886) individuava ancora nelle macchine la causa principale del lavoro femminile e minorile dell’industria: “Una conseguenza […] della grande produzione è stata quella di creare una serie d’occupazioni tali da trar profitto di tutte le forze, di tutte le capacità. Nei campi ove le macchine sono meno diffuse codesta gradazione di lavori è minore […]. Nell’industria, nella grande industria specialmente, oggetto di tante accuse, appunto per la grande diffusione delle macchine, questa ripartizione può farsi più facilmente che in ogni altra; essa offre occupazione a tutti, proporzionate ai sessi ed all’età”.

Come testimonia anche il lungo e difficile percorso di riconoscimento del lavoro femminile e di lotta al lavoro infantile, le fasi del lavoro “proporzionate” a questi soggetti in realtà sono state sempre mansioni accessorie, non caratterizzate da un periodo di formazione che si configura come abilitante, né sostenute da una rappresentazione di sé e del proprio lavoro in grado di alimentare anche la coscienza dei propri diritti.


Incisione da fotografia,  The British Workman, gennaio 1872, tratta da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Quanti lavori fai?

Vecchie e nuove forme di micro-lavoro hanno tradizionalmente esposto categorie di lavoratori deboli alle difficoltà di una sottoccupazione che spesso ha anche implicato la necessità di integrare diverse attività per accedere a un reddito minimo. Forme di pluri-attività sono presenti fin dagli scenari proto-industriali che lasciavano spazio al prosieguo di un’attività artigianale da parte dei lavoratori, o negli ambiti rurali dove da sempre il lavoro di fabbrica si è integrato al lavoro dei campi.

La complessità del lavoro contemporaneo, con la sua tendenza a generare attività non standard che restano fuori dalle tradizionali forme di tutela e contrattualizzazione, ha esteso in modo impressionante il bacino dei lavoratori pluri-attivi. La situazione è in parte nuova e diversa rispetto al passato: sebbene non si possa dire risolta e superata la questione della marginalità di queste forme di “lavoro spezzato” – perché evidenti sono ancora le criticità sul piano della regolamentazione e delle protezione sociale che sollecitando nuove e urgenti risposte in termini di welfare – si apre anche un nuovo scenario di opportunità. Lo dimostra, ad esempio, l’esplosione della gig-economy, una declinazione particolarmente significativa – in termini di produzione di ricchezza e disseminazione di servizi – della pluri-attività contemporanea. Pur in un quadro di provvisorietà e precarietà, queste nuove figure – che ormai non interessano soltanto contesti di lavoro cognitivo e creativo – mettono in discussione antiche relazioni di padronato, accedono a modi e tempi di lavoro veramente autonomi, hanno una maggiore libertà di movimento e possibilità di apprendimento e di sviluppo creativo impensabili per le omologhe figure “standard”. In questo modo, si sta configurando un nuovo modo di mettersi al centro del lavoro contemporaneo, nei fatti e negli stili di vita se non rispetto alla forza contrattuale: soprattutto attraverso nuove forme di collaborazione, nuovi spazi di coabitazione lavorativa, nuove reti di sostegno collettivo, nuovi modi di condividere strumenti e conoscenze. Tanti lavori, quindi. Ma anche l’opportunità di allestire plurimi percorsi di senso, scambio e condivisione.

Pagina99 (Italie, 16 juin 2017)

Nel quotidiano Pagina99, numero speciale del weekend 17 giugno 2017 “algoritmi e sorveglianza”, una lunga intervista rilasciata al giornalista Samuele Cafasso.

I nuovi schiavi degli algoritmi

Per costruire le macchine al servizio dell’uomo, i grandi gruppi del digitale impiegano una moltitudine di persone. Spesso in condizioni definibili come sfruttamento. L’intervista di pagina99 al sociologo Casilli.

  • SAMUELE CAFASSO

Prima di chiederci se l’intelligenza artificiale e i robot ci toglieranno il lavoro, dovremmo chiederci quanto e quale lavoro serve per costruire le intelligenze artificiali. Scopriremmo così un grande paradosso: per costruire le macchine al servizio dell’uomo, i grandi gruppi del digitale stanno usando una moltitudine di persone a servizio delle macchine, spesso facendole lavorare in condizioni definibili come sfruttamento. La tesi è di Antonio Casilli, professore associato al Paris Institute of Technology e ricercatore al Centro Edgar Morin, tra i più acuti studiosi europei dell’impatto delle tecnologie digitali sulle nostre strutture sociali. L’abbiamo intervistato in occasione del Jobless society forum organizzato a Milano dalla Fondazione Feltrinelli.

D. Casilli, di quale intelligenza artificiale stiamo parlando e perché, per essere realizzata, questa richiede lo sfruttamento dell’uomo?
R. I grandi gruppi digitali come Google, o Facebook, hanno la loro ragione d’essere nel costituirsi come piattaforme di servizi per i propri utenti. Sono anche un riferimento per le altre imprese, di cui inglobano e coordinano le attività. Per svolgere il loro compito ricorrono sempre più spesso a sistemi automatici di funzionamento. In pratica si tratta di software costruiti grazie al machine learning, sistemi di apprendimento automatico: ogni dato inserito permette alla macchina di raffinare il proprio funzionamento, di specializzarsi riducendo gli errori. Serve però una mole enorme di dati, e di buona qualità. Questi dati sono prodotti e raffinati da noi, esseri umani.

D. È il sistema che sta alla base dei traduttori online, o dei “risponditori” automatici come Siri, o Cortana. Ma per il machine learning non basta il lavoro non retribuito che eseguiamo noi come utenti attraverso la nostra navigazione, l’uso dei dispositivi, i like che inseriamo sui social network e altro ancora?
R. Questa raccolta di dati è importantissima. I big data a disposizione di Facebook con i suoi 1,8 miliardi di profili, o le centinaia di milioni di clienti di Amazon, sono alla base del processo di machine learning. Ma le grandi piattaforme, lo sappiamo per certo, non si limitano a raccogliere i dati in maniera passiva. Questi dati vanno rielaborati, sistematizzati, annotati. C’è troppo “rumore” perché siano utilizzabili così come sono. E qui entra in gioco il microlavoro umano.

D. Di quali compiti stiamo parlando, in concreto?
R. Stiamo parlando di compiti che, presi singolarmente, sono minimi. Facciamo qualche esempio: selezionare, tra otto foto che compaiono sullo schermo, quelle in cui compare un determinato elemento, ad esempio un lago o l’insegna di un negozio. Individuare in qualche secondo se un sito è “solo per adulti”. Correggere lo spelling nella trascrizione di testi, brevissimi, di appena qualche parola. E altro ancora. Microcompiti che vengono spesso appaltati attraverso le piattaforme di micro-lavoro per qualche centesimo l’una, a volte anche meno.

D. Quali aziende sono coinvolte?
R. Ogni grande gruppo può contare su piattaforme a questo in qualche modo collegate. La più nota di tutte è Mechanical Turk di Amazon, il cui nome già dice tutto. Il “turco meccanico” è il nome di un robot giocatore di scacchi sviluppato alla fine del 1700. Vestito appunto come un turco, in realtà celava al suo interno una persona. Il robot, insomma, si muoveva solo grazie all’uomo. Google utilizza una piattaforma che si chiama Ewoq, Microsoft ha Uhrs, Ibm ricorre a Mighty Ai, Apple utilizza per la geolocalizzazione Try Rating. E poi ci sono tante piattaforme di microlavoro generaliste.

D. Chi si fa carico di questi lavori?
R. Se guardiamo al mercato dei click, vediamo che i primi utilizzatori si trovano negli Stati Uniti, in Paesi europei come la Francia, o la Gran Bretagna, in Canada, Australia. Lì si concentrano le imprese che reclutano microlavoratori per allenare le intelligenze artificiali. Chi vende prestazioni invece si trova soprattutto in India, Pakistan, Filippine, Malesia, America Centrale. Spesso si tratta di persone che lavorano da casa, ma ci sono realtà molto più dure. Alcuni operano negli equivalenti digitali dei call center, in grandi stanze ingombre di computer, una a fianco all’altra, in condizioni precarie. Sono le click-farm, di cui si parla oramai da anni. Lo schema che aveva notato Naomi Klein alla fine degli anni Novanta con il libro No Logo, per cui la globalizzazione e la delocalizzazione delle imprese tendeva a riprodurre schemi di potere di tipo colonialista, oggi si ripropone. Questa volta a essere mobili non sono i capitali e la produzione delle merci, ma il mercato del lavoro. Anche quando queste persone si trovano nei Paesi occidentali, nel Nord globale, sono persone spesso ai margini. Il microlavoro ha tendenza a riprodurre forme di esclusione classiche. Le donne sono particolarmente toccate, o i portatori di handicap. In alcuni casi, forme di precarietà più estreme fanno di questa forza lavoro un vero e proprio “esercito industriale di riserva” composto di ex-detenuti, persone senza domicilio fisso, lavoratori recentemente immigrati con secoli di storia di sfruttamento alle loro spalle. Alcune piattaforme (diverse da quelle citate qui sopra e non direttamente riferibili ai grandi gruppi del digitale, ndr.) come Mobileworks si fanno un vanto di impiegare «comunità di sotto-occupati negli Stati Uniti e nel mondo». I programmi di lavoro nelle carceri americane oggi includono compiti come data entry, trascrizioni di testi, preparazione di documenti. Anche quando gli utenti di queste piattaforme sono formalmente liberi, alcune imprese (come Microsourcing nelle Filippine) mimano il linguaggio delle colonie penali, promettendo alle imprese occidentali che i loro microlavori saranno eseguiti da persone «virtualmente in cattività».

D. Quali responsabilità abbiamo come utenti delle piattaforme e come cittadini?
R.
Se pensiamo che i nostri comportamenti individuali possano in qualche modo influire su queste dinamiche facciamo un errore enorme. Non possiamo separare i mercati di lavoro tradizionali, presenziali, da quelli delle piattaforme di microlavoro. I conflitti e le tensioni tra lavoratori scatenati dalle delocalizzazioni e dalla mobilità internazionale di imprese e individui si riproducono online. Questo è un problema globale che richiede risposte globali. È il legislatore, nazionale e sovranazionale, che deve assecondare i movimenti di auto-organizzazione di lavoratori per riaffermare i loro diritti. Un ruolo importante possono averlo anche i sindacati tradizionali. Anche se qui in Europa hanno reputazione di essere in ritardo rispetto a queste evoluzioni tecnologiche, sono loro che conservano infrastrutture, saperi forti su come gestire il conflitto e il dialogo sociale, radici tra i lavoratori e capacità di rapportarsi con le aziende e il legislatore. Alcune realtà si stanno muovendo in questo senso, come la Cgt o Force Ouvrière in Francia, la Cgil in Italia, Ig Metall in Germania con il progetto Fair Crowd Work che permette di mettere in rete le esperienze dei lavoratori. È necessario che ci si muova in questa direzione».

Questo articolo è tratto dal nuovo numero di pagina99, “dalla Cina a Facebook – prove di controllo totale”, in edicola, digitale e abbonamento dal 16 al 22 giugno 2017.

[Podcast] Digital labor, micro-travail et fermes à clic : grand entretien sur RTS (Suisse, 10 juin 2017)

J’ai été l’invité du journaliste Antoine Droux au Six heures-Neuf heures du samedi sur Le 1ère de RTS (Radio Télévision Suisse).

» [Podcast] Lʹéconomie du clic devient incontrôlable (25’49”)

Nous travaillons tous sur Internet. Chacune de nos actions sur le web renforce lʹéconomie du clic, génère des milliards de francs qui tombent dans dʹautres poches que les nôtres et entraîne les intelligences artificielles. Et quand un internaute de lʹautre bout du monde est rétribué pour décrire une photo ou faire une traduction, ce nʹest quʹà hauteur de quelques centimes par minute. Aucune pénibilité reconnue, aucune réglementation, aucun syndicat, bienvenue dans le merveilleux monde du “digital labor”. Chronique: Laurence Difélix et Stéphane Laurenceau. Invité: Antonio Casilli, sociologue, maître de conférences en humanités numériques à Télécom ParisTech. Co-auteur en 2015 de “Quʹest-ce que le digital labor ?” (éd. INA).

Ailleurs dans les médias (avril-juillet 2017)

» (26 juillet 2017) Les Ateliers de Couthures pour comprendre la mutation du monde, Livres Hebdo

» (24  juillet 2017) Il made in Italy con i robot: è il futuro degli “artigiani digitali”, AgendaDigitale.eu

» (17 juillet 2017) Web is dead//La mort du vrai troll, Radio Nova

» (11 juillet 2017) Digital Labor : comment Internet vous fait travailler gratuitement, Unidivers. Le web culturel breton

» (4 juillet 2017) Micro Jobs: how machines and artificial intelligence are “trained”, Morning Future

» (3 juillet 2017) Notre vie privée peut-elle s’acheter ?, AEDH (Association Européenne pour le défense des Droits de l’Homme)

» (17 juin 2017) Ados : quand les anorexiques se défient sur Instagram, Elle

» (12 juin 2017) Il y a des questions qui fâchent… même avec les robots, Mashable

» (15 juin 2017) Ateliers de Couthures : une immersion originale au coeur de l’actualité, L’OBS

» (8 juin 2017) La privacy sul web è solo un’illusione, L’Espresso

» (8 juin 2017) Une immersion originale au cœur de l’actualité, Huffington Post France

» (31 mai 2017) Lavoro, in Feltrinelli si immagina il futuro, Vita

» (22 mai 2017) Sur Amazon Turk, les forçats du clic, Le Monde

» (18 mai 2017) Big data et RH : comment faire face à la gouvernance par les grands nombres ?, FO Cadres

» (17 mai 2017) Sociologie des réseaux et humanités numériques, Eduscol

» (17 mai 2017) Cyberattaque : l’incroyable histoire du Dr. Popp, inventeur du premier virus à rançon, NEON

» (20 avril 2017) Présidentielle 2017 : les “fake news” peuvent-elles influencer la campagne ?, La Tribune

Quésaco le digital labor ? // What is digital labor? (entretien I’MTech, 9 juin 2017)

A l’occasion de mon passage à Future En Seine 2017 pour parler micro-travail et intelligences artificielles, je viens d’accorder un entretien à I’MTech, le site d’information sur le numérique et l’innovation de l’Institut Mines-Télécom. La version en français est accessible ici. Celle en anglais, par ici.

Quèsaco le digital labor ?

Sommes-nous tous des ouvriers des plateformes numériques ? C’est la question que pose un nouveau champ de recherche : le digital labor. En utilisant nos données personnelles, les entreprises du web créent une valeur considérable. Mais quelle rétribution en tirons-nous ? Antonio Casilli, chercheur à Télécom ParisTech et spécialiste du digital labor, donnera le 10 juin prochain une conférence sur le sujet lors de Futur en Seine, à Paris. À cette occasion, il décortique pour nous les raisons du déséquilibre entre plateformes et usagers, ainsi que ses conséquences.

 

Que se cache-t-il derrière le terme de « digital labor » — que l’on pourrait traduire littéralement par « travail numérique » ?

Antonio Casilli : Le digital labor est avant tout un domaine de recherche relativement nouveau. Il est apparu à la fin des années 2000 et il explore les nouvelles manières de créer de la valeur sur les plateformes numériques. En particulier, il pointe l’émergence d’une nouvelle manière de travailler : « tâcheronisée » et « dataifiée ». Ce sont des mots barbares qu’il faut définir pour bien comprendre. « Dataifiée », parce qu’il s’agit de produire de la data pour que les plateformes numériques en tirent de la valeur. « Tâcheronisée », car pour produire de la data efficacement il faut standardiser le geste humain et le réduire à son unité la plus petite. Ceci introduit un effet de fragmentation des savoirs complexes, ce qui se superpose à des risques de déqualification et de déstructuration des métiers traditionnels.

Concrètement, qui effectue ce travail dont il est question ?

AC : Des micro-travailleurs qui sont recrutés par le biais de plateformes numériques. Ce sont les petites mains, les travailleurs du clic derrière les API. Mais dans la mesure où ce cas de figure se généralise, on pourrait répondre : n’importe quel travailleur effectue du digital labor. Et même : n’importe quel consommateur. Si nous adoptons cette perspective, n’importe qui, inscrit sur Facebook, Twitter, Uber, Amazon, YouTube, est un travailleur du clic… Vous, moi, nous produisons du contenu : des vidéos, des photos, des commentaires… Derrière ce contenu se cachent des métadonnées, qui intéressent les plateformes. Facebook n’est pas intéressée par le contenu de vos photos, par exemple. La plateforme est intéressée par où et quand la photo a été prise, par la marque de l’appareil qui a photographié. Et ces données, vous les produisez de manière tâcheronisée puisque pour vous c’est un simple clic sur une interface numérique. Ce digital labor est non rémunéré, puisque vous ne touchez aucune rétribution financière pour ce travail. Mais cela reste du travail : c’est une source de valeur, tracée, mesurée, évaluée, et encadrée contractuellement par les conditions générales d’usage des plateformes.

Existe-t-il un digital labor qui n’est pas gratuit ?

AC : Oui, c’est l’autre catégorie du digital labor : le travail micro-payé. Des personnes sont rémunérées pour cliquer toute la journée sur des interfaces et réaliser des tâches hyper simples. Ces tâcherons sont le plus souvent situés en Inde, aux Philippines, ou dans des pays en voie de développement, où le salaire moyen est bas. Ils reçoivent une poignée de centimes de dollars pour chaque clic.

Quel intérêt les plateformes tirent-elles de cette main d’œuvre ?

AC : Rendre les algorithmes plus performants. Amazon a par exemple un service de micro-travail qui s’appelle Amazon Mechanical Turk, qui est certainement la plateforme de micro-travail la plus connue au monde. Leurs algorithmes de recommandation d’achat, par exemple, ont besoin de s’entraîner sur des grandes bases de données de qualité pour être efficaces. Les tâcherons sont là pour trier, annoter, qualifier les images des produits proposés par Amazon. Ils sont là pour en extraire des informations textuelles pour les clients, traduire des commentaires pour améliorer les propositions d’achats secondaires dans d’autres langues, écrire les descriptions de produits…

Je cite Amazon mais ce n’est pas le seul exemple. Les géants du numérique se sont tous dotés de services de micro-travail. Microsoft se sert d’UHRS, Google de son service EWOQ… Derrière Watson, l’intelligence artificielle d’IBM présentée comme une de ses plus belles réussites dans le domaine, il y a MightyAI. Cette entreprise rémunère des micro-travailleurs pour entraîner Watson, et a pour devise « Train data as a service ». Dessus, les micro-travailleurs indiquent par exemple sur des images le ciel, les nuages, les montagnes, etc. afin d’entraîner des algorithmes de reconnaissance visuelle. C’est une pratique très répandue. Il ne faut pas oublier que derrière l’intelligence artificielle, il y a avant tout des humains. Et ces humains sont avant tout des travailleurs, dont les conditions de travail et les droits doivent être respectés.

Les tâches proposées sur Amazon Mechanical Turk sont rémunérées quelques centimes pour des tâches aussi répétitives que « répondre à un questionnaire sur le scénario d’un film ».
Cette forme de digital labor est un peu différente de celle que j’effectue puisqu’il s’agit là d’effectuer des tâches plus techniques.

AC : Au contraire, il s’agit de tâches simples, qui ne demandent pas un savoir expert. Disons-le haut et fort : le travail des micro-tâcherons et des foules anonymes des usagers de plateformes n’est pas un travail de « sublimes », d’experts d’informatique, d’ingénieurs et hackers. Au contraire, il exerce une pression vers le bas sur les rémunérations et les conditions de travail de cette portion de la force de travail. Le risque pour un ingénieur du numérique aujourd’hui n’est pas de se faire remplacer par un robot, mais que son travail soit délocalisé par son entreprise au Kenya ou au Nigeria où il sera réalisé par des micro-tâcherons du code recrutés par de nouvelles entreprises comme Andela, la startup financée par Mark Zuckerberg. Il faut comprendre que les micro-tâches ne sont pas un métier qui mobilise des savoirs complexes : écrire une ligne, transcrire un mot, saisir un chiffre, labéliser une image. Et surtout cliquer, cliquer, cliquer…

Est-ce que je peux percevoir l’influence de ces clics en tant qu’utilisateur ?   

 AC : Les tâcherons recrutés par ces véritables « fermes à clic » peuvent également être mobilisés pour regarder une vidéo, écrire un commentaire ou mettre un like. C’est souvent ce qu’il se passe lors des grandes campagnes publicitaires ou politiques. Les entreprises ou partis ont un budget, ils délèguent la campagne numérique à une entreprise qui elle-même va déléguer à un prestataire… Et au final on se retrouve dans une situation où dans un bureau, quelque part, deux personnes ont un objectif irréalisable de devoir engager un million de personnes sur un tweet. Comme c’est impossible, elles utilisent leur budget pour générer des faux clics via des tâcherons. C’est aussi comme cela que des fake news prennent une ampleur incroyable : en étant supportées financièrement par des agences mal intentionnées qui paient une fausse audience. C’est d’ailleurs l’objet du projet de recherche Profane que je mène actuellement à Télécom ParisTech avec Benjamin Loveluck et d’autres collègues français et belges.

Les plateformes ne luttent-elles pas contre ce genre de pratiques ?

AC : Non seulement elles ne luttent pas contre ces pratiques, mais elles les ont intégrées dans leur modèle d’affaires. Pour les réseaux sociaux, les messages avec beaucoup de likes ou de commentaires augmentent l’envie des autres utilisateurs d’interagir et de générer du trafic organique. Ils consolident ainsi leur base d’utilisateurs. En plus de cela, ces plateformes ont aussi recours à ces pratiques, par le jeu des chaînes de sous-traitance. Lorsque vous faites une campagne sponsorisée sur Facebook ou Twitter, vous avez beau calibrer votre cible de la meilleure façon qui soit, vous finissez toujours par avoir des clics générés par des micro-tâcherons.

Mais si ces tâcherons sont rémunérés pour liker ou commenter, cela ne pose-t-il pas des questions par rapport aux tâches que font les utilisateurs classiques ?

AC : Le nerf de la guerre est là. Aux yeux de la plateforme, il n’y a pas de différence entre moi et un travailleur du clic rémunéré à la micro-tâche. Nos deux likes ont la même signification financière pour elle. C’est pourquoi, dans le premier cas de figure comme dans le second, on parle de digital labor. C’est pour cela aussi que Facebook fait face à un recours collectif déposé auprès de la Cour de justice de l’Union européenne par 25 000 utilisateurs. Ils demandent 500 € par personne pour toute la donnée qu’ils ont produite. Google a également fait face à une plainte pour ses Recaptcha, par des usagers qui demandaient à être requalifiés en employés de la firme de Mountain View. Recaptcha était un service qui enjoignait aux utilisateurs de certifier qu’ils n’étaient pas des robots en identifiant des mots peu lisibles. Les données récoltées servaient à améliorer les algorithmes de reconnaissance textuelle de Google Books pour la numérisation des livres. La plainte a échoué mais elle a fait prendre conscience de la notion de digital labor. Et surtout, elle a provoqué une prise de conscience interne auprès de Google, qui a ensuite abandonné le système Recaptcha.

Les utilisateurs classiques pourraient-ils alors être rémunérés pour les données qu’ils fournissent ?

AC : Dans la mesure où les micro-tâcherons payés quelques centimes par clic et les utilisateurs lambda réalisent le même type de geste productif, il est légitime de se poser la question. Le 1er juin dernier, Microsoft a décidé de rémunérer en bons d’achat les utilisateurs de Bing pour les convaincre d’utiliser leur moteur de recherche plutôt que Google. Il est possible pour une plateforme d’avoir un prix d’utilisation négatif – c’est à dire de payer ses usagers pour leurs usages. La question qui se pose est de savoir à quel moment ce genre de pratique est assimilable à un salaire, et si le prisme salarial est le plus adapté politiquement et le plus viable socialement. On rentre là dans des questions classiques de la sociologie du travail. Elles peuvent aussi concerner les chauffeurs Uber, qui vivent de l’application et dont les données sont utilisées pour entraîner des voitures autonomes. Les corps intermédiaires et les pouvoirs publics ont un rôle important à jouer dans ce contexte. Il existe des initiatives, comme celle du syndicat IG Metal en Allemagne, qui visent à valoriser le micro-travail et à instaurer des négociations collectives pour faire valoir les droits des tâcherons du clic, et plus globalement de tous les travailleurs des plateformes.

Plus généralement c’est la question de ce qu’est une plateforme numérique qui semble être posée.

AC : Pour moi, il vaut mieux reconnaître le caractère contractuel établi entre une plateforme et ses utilisateurs. Les conditions générales d’utilisation devraient être renommées « contrats d’exploitation à fins commerciales des données et des tâches réalisées par des humains » — si la finalité est commerciale. Car c’est ce que toutes les plateformes ont en commun : extraire de la valeur des données, et décider qui a le droit de les exploiter.

 


What is Digital Labor?

Are we all working for digital platforms? This is the question posed by a new field of research: digital labor. Web companies use personal data to create considerable value —but what do we get in return? Antonio Casilli, a researcher at Télécom ParisTech and a specialist in digital labor, will give a conference on this topic on June 10 at Futur en Seine in Paris. In the following interview he outlines the reasons for the unbalanced relationship between platforms and users and explains its consequences.

 

What’s hiding behind the term “digital labor?”

Antonio Casilli: First of all, digital labor is a relatively new field of research. It appeared in the late 2000s and explores new ways of creating value on digital platforms. It focuses on the emergence of a new way of working, which is “taskified” and “datafied.” We must define these words in order to understand them better. “Datafied,” because it involves producing data so that digital platforms can derive value. “Taskified,” because in order to produce data effectively, human activity must be standardized and reduced to its smallest unit. This leads to the fragmentation of complex knowledge as well as to the risks of deskilling and the breakdown of traditional jobs.

And who exactly performs this work in question?

AC: Micro-workers who are recruited via digital platforms. They are unskilled laborers, the click workers behind the API. But, since this is becoming a widespread practice, we could say anyone who works performs digital labor. And even anyone who is a consumer. Seen from this perspective, anyone who has a Facebook, Twitter, Amazon or YouTube account is a click worker. You and I produce content —videos, photos, comments —and the platforms are interested in the metadata hiding behind this content. Facebook isn’t interested in the content of the photos you take, for example. Instead, it is interested in where and when the photo was taken, what brand of camera was used. And you produce this data in a taskified manner since all it requires is clicking on a digital interface. This is a form of unpaid digital labor since you do not receive any financial compensation for your work. But it is work nonetheless: it is a source of value which is tracked, measured, evaluated and contractually defined by the terms of use of the platforms.

Is there digital labor which is not done for free?

AC: Yes, that is the other category included in digital labor: micro-paid work. People who are paid to click on interfaces all day long and perform very simple tasks. These crowdworkers are mainly located in India, the Philippines, or in developing countries where average wages are low. They receive a handful of cents for each click.

How do platforms benefit from this labor?

AC: It helps them make their algorithms perform better. Amazon, for example, has a micro-work service called Amazon Mechanical Turk, which is almost certainly the best-known micro-work platform in the world. Their algorithms for recommending purchases, for example, need to practice on large, high-quality databases in order to be effective. Crowdworkers are paid to sort, annotate and label images of products proposed by Amazon. They also extract textual information for customers, translate comments to improve additional purchase recommendations in other languages, write product descriptions etc.

I’ve cited Amazon but it is not the only example.  All the digital giants have micro-work services. Microsoft uses UHRS, Google has its EWOQ service etc. IBM’s artificial intelligence, Watson, which has been presented as one of its greatest successes in this field, relies on MightyAI. This company pays micro-workers to train Watson, and its motto is “Train data as a service.” Micro-workers help train visual recognition algorithms by indicating elements in images, such as the sky, clouds, mountains etc. This is a very widespread practice. We must not forget that behind all artificial intelligence, there are, first and foremost, human beings. And these human beings are, above all, workers whose rights and working conditions must be respected.

Workers are paid a few cents for tasks proposed on Amazon Mechanical Turk, which includes such repetitive tasks as “answer a questionnaire about a film script.”
This form of digital labor is a little different from the kind I carry out because it involves more technical tasks.   

AC:  No, quite the contrary. They perform simple tasks that do not require expert knowledge. Let’s be clear: work carried out by micro-workers and crowds of anonymous users via platforms is not the ‘noble’ work of IT experts, engineers, and hackers. Rather, this labor puts downward pressure on wages and working conditions for this portion of the workforce. The risk for digital engineers today is not being replaced by robots, but rather having their jobs outsourced to Kenya or Nigeria where they will be done by code micro-workers recruited by new companies like Andela, a start-up backed by Mark Zuckerberg. It must be understood that micro-work does not rely on a complex set of knowledge. Instead it can be described as: write a line, transcribe a word, enter a number, label an image. And above all, keep clicking away.

Can I detect the influence of these clicks as a user?

 AC: Crowdworkers hired by genuine “click farms” can also be mobilized to watch videos, make comments or “like” something. This is often what happens during big advertising or political campaigns. Companies or parties have a budget and they delegate the digital campaign to a company, which in turn outsources it to a service provider. And the end result is two people in an office somewhere, stuck with the unattainable goal of getting one million users to engage with a tweet. Because this is impossible, they use their budget to pay crowdworkers to generate fake clicks. This is also how fake news spreads to such a great extent, backed by ill-intentioned firms who pay a fake audience. Incidentally, this is the focus of the Profane research project I am leading at Télelécom ParisTech with Benjamin Loveluck and other French and Belgian colleagues.

But don’t the platforms fight against these kinds of practices?

AC: Not only do they not fight against these practices, but they have incorporated them in their business models. Social media messages with a large number of likes or comments make other users more likely to interact and generate organic traffic, thereby consolidating the platform’s user base. On top of that, platforms also make use of these practices through subcontractor chains. When you carry out a sponsored campaign on Facebook or Twitter, you can define your target as clearly as you like, but you will always end up with clicks generated by micro-workers.

But if these crowdworkers are paid to like posts or make comments, doesn’t that raise questions about tasks carried out by traditional users?

AC: That is the crux of the issue. From the platform’s perspective, there is no difference between me and a click-worker paid by the micro-task. Both of our likes have the same financial significance. This is why we use the term digital labor to describe these two different scenarios. And it’s also the reason why Facebook is facing a class-action lawsuit filed with the Court of Justice of the European Union representing 25,000 users. They demand €500 per person for all the data they have produced. Google has also faced a claim for its Recaptcha, from users who sought to be re-classified as employees of the Mountain View firm. Recaptcha was a service which required users to confirm that they were not robots by identifying difficult-to-read words. The data collected was used to improve Google Books’ text recognition algorithms in order to digitize books. The claim was not successful, but it raised public awareness of the notion of digital labor. And most importantly, it was a wake-up call for Google, who quickly abandoned the Recaptcha system.

Could traditional users be paid for the data they provide?

AC: Since both micro-workers, who are paid a few cents for every click, and ordinary users perform the same sort of productive activity, this is a legitimate question to ask.  On June 1, Microsoft decided to reward Bing users with vouchers in order to convince them to use their search engine instead of Google. It is possible for a platform to have a negative price, meaning that it pays users to use the platform. The question is how to determine at what point this sort of practice is akin to a wage, and if the wage approach is both the best solution from a political viewpoint and the most socially viable. This is where we get into the classic questions posed by the sociology of labor. They can also relate to Uber drivers, who make a living from the application and whose data is used to train driverless cars. Intermediary bodies and public authorities have an important role to play in this context. There are initiatives, such as one led by the IG Metal union in Germany, which strive to gain recognition for micro-work and establish collective negotiations to assert the rights of clickworkers, and more generally, all platform workers.

On a broader level, we could ask what a digital platform really is.

AC: In my opinion, it would be better if we acknowledged the contractual nature of the relationship between a platform and its users. The general terms of use should be renamed “Contracts to use data and tasks provided by humans for commercial purposes,” if the aim is commercial. Because this is what all platforms have in common: extracting value from data and deciding who has the right to use it.

[Séminaire #ecnEHESS] Une Déclaration des Droits pour internet ? (Juan Carlos De Martin, 19 juin 2017, 17h)

NB ⚠️ A cause d’un retard important sur la ligne TGV, le séminaire #ecnEHESS avec le prof. De Martin a été annulé. Nous nous excusons auprès de tout.e.s les participant.e.s pour ce désagrément. La séance va être reprogrammée pour l’année prochaine.

Le séminaire aura lieu le lundi 19 juin 2017, de 17h à 20h à l’EHESS, Salle Lombard, 96 bd. Raspail, 6e arr. Paris.

La présentation et les débats se dérouleront en anglais.

Pour suivre le séminaire sur Twitter : hashtag #ecnEHESS.

Title: Looking back at the 2015 Declaration of Internet Rights

Speaker: Juan-Carlos De Martin

Abstract: The idea that a human-rights approach could be useful to shape the digital revolution goes back to the 1970s. While France was adopting its “Loi Informatique et Liberté” and creating the CNIL, in Italy the lawmaker and future founder of the Italian Privacy Authority, Stefano Rodotà, argued in favor of a ‘Bill of Rights’ protecting citizens from the creation of ‘computer dossiers’ by Governments and large corporations.
The idea was kept alive while computer networks continued to grow in the 1980s and 1990s. Yet it reached the limelight only in early 2000, in the wake of the World Wide Web and the emergence of large digital corporations. As a reaction, in the following years dozens of ‘Internet bill of  rights’ were produced all over the world (from Brazil, to Nigeria and the Philippines), mostly by civil society organizations.
In 2015 a study commission established by the President of the Italian Parliament also published a Declaration of Internet Rights, which was subsequently signed by French and Italian parliaments, and recently adopted as a reference document by the European Parliament in order to draft a EU Charter of Internet Rights.
What is the potential of a digital rights approach to shape the digital revolution? Has it already achieved any results? Should we keep working in this direction? If yes, what else is needed?

[Vidéo] Turfu Express #1 : une émission sur politique, travail du clic et mouvements sociaux (2 juin 2017)

Arthur de Grave et Eric Baille m’ont invité pour un entretien sur internet, progrès, justice sociale et émancipation politique. On a fini par parler de bulles de filtre, fake news et digital labor. Avec en bonus une enquête sur Vélès, la “capitale des fake news”, et une digital detox dans la campagne française. C’est la vie.

Linkiesta (Italie, 2 juin 2017)

La giornalista Lidia Baratta pubblica sul sito di informazione Linkiesta una sintesi dettagliata del mio intervento al Jobless Society Forum della Fondazione Feltrinelli di Milano.

Siamo già nell’era del microlavoro (e non è una buona notizia)

Dietro assistenti virtuali, intelligenze artificiali e pagine Facebook da centinaia di migliaia di like si nascondono microlavoratori situati per lo più in Paesi emergenti e pagati anche 1 centesimo di dollaro per task. Casilli (ParisTech): “Siamo davanti a un vero mercato del lavoro a cottimo”

2 Giugno 2017 – 08:02

Trascrivere scontrini, riconoscere il cielo e le montagne in un’immagine, risolvere un captcha, scaricare un videogame. Se le tecnologie e le intelligenze artificiali non sostituiranno del tutto i lavoratori, di certo hanno già creato un mercato del lavoro parallelo fatto di “microlavoratori”. È quello che ha sostenuto Antonio Casilli, professore associato di Digital Humanities al Telecommunication College of the Paris Institute of Technology, nel suo intervento nel corso del Jobless Society Forum della Fondazione Feltrinelli a Milano. Operai digitali, delocalizzati per lo più tra India, Bangladesh e Nepal, vengono ingaggiati per realizzare davanti a un computer o allo schermo di uno smartphone micromansioni pagate anche un centesimo di dollaro per ogni “task”. Sono i lavoratori umani invisibili che alimentano e “allenano” le intelligenze artificiali, le app e gli assistenti virtuali di cui ci serviamo ogni giorno. Una nuova era digitale del lavoro a cottimo, che vale fino 400 milioni di dollari (il mercato dell’online outsourcing tra freelance e microworker vale in totale 4,8 miliardi di dollari, destinato a crescere – secondo la Banca mondiale – fino a 15-25 miliardi di ricavi entro il 2020).

Il ragionamento è semplice: se serve un sistema che identifichi automaticamente i cani nei video di YouTube, ci deve essere prima un umano che mostri all’intelligenza artificiale cos’è e che forma ha un cane, taggando milioni di foto di cani. Taggare milioni di foto di cani così diventa un lavoro. Le competenze richieste sono basse, la creatività pure, e il salario lo è ancora meno.

Gli stessi assistenti virtuali come Siri di Apple, Cortana di Microsoft o Alexa di Amazon sarebbero (ancora) più stupidi senza il lavoro umano che si nasconde dietro. Le intelligenze artificiali, insomma, non sono nate già così intelligenti. Così come i consigli azzeccati di Amazon sulle sneakers che potrebbero piacerci mentre compriamo un pantalone: dietro c’è un database “compilato a mano” da uomini che hanno memorizzato tipologie, marche, colori e anno di produzione di migliaia di altre sneakers.

Facebook, da parte sua, non ha mai nascosto la presenza di esseri umani dietro il suo assistente virtuale “M”. E anzi, l’ha trasformata in argomento di distinzione rispetto ai concorrenti. L’intelligenza artificiale di casa Zuckerberg risponde “in tandem” con gli umani, è controllata dagli umani e continuamente “alimentata” da loro attraverso la produzione di dati in modo da renderla più evoluta. Quando si fa una domanda, M lavora per capire cosa abbiamo chiesto e formula una risposta, ma prima aspetta l’ok dei “trainer” umani. Così quando parliamo con una chat bot non sappiamo mai se dietro c’è un software o una persona che si trova a San Francisco, Milano o Dhaka.

«L’effetto dell’intelligenza artificiale sul lavoro non è la grande sostituzione dei lavoratori con delle intelligenze artificiali, ma la sostituzione del lavoro formale con micro-lavoro precarizzato e invisibilizzato», spiega Antonio Casilli. «Nonostante si parli di micro-lavoro, siamo davanti a un vero mercato del lavoro e non a un fenomeno di nicchia, con veri e propri annunci di lavoro».

L’effetto dell’intelligenza artificiale sul lavoro non è la grande sostituzione dei lavoratori con delle intelligenze artificiali, ma la sostituzione del lavoro formale con micro-lavoro precarizzato e invisibilizzato

Antonio Casilli, Telecommunication College of the Paris Institute of Technology

Per avere un panorama delle offerte dei microlavori digitali offerti, basta andare su Amazon Mechanical Turk, la piattaforma creata da Amazon in cui aziende e sviluppatori comprano intelligenza umana per le loro applicazioni. Il nome stesso del sito nasce da “il turco”, un automa creato nel 18esimo secolo che avrebbe dovuto simulare un giocatore di scacchi ma che in realtà era manovrato da un giocatore umano all’interno. La metafora c’è tutta. Se un’azienda ha bisogno di trascrivere delle fatture, classificare immagini o inserire dati, si rivolge al lato umano di Amazon reclutando migliaia di microworker per realizzare altrettante microtask.

Ma quando si fa un giro tra gli annunci di lavoro del sito, il lato umano si vede un po’ meno. Per un centesimo di dollaro si chiede ad esempio di collezionare indirizzi email tramite i canali di YouTube e risolvere i relativi captcha. Per 5 centesimi la mansione richiesta è di scrivere cosa si vede nelle immagini di vecchie cartoline. Per la stessa paga si possono classificare alcune immagini. Ma ci sono anche i lavori offerti per zero centesimi, come la trascrizione delle cifre della console di un un tapis roulant.

Amazon

Gli annunci su Amazon Mechanical Turk

Taggare milioni di foto di cani diventa un lavoro. Le competenze richieste sono basse, la creatività pure, e il salario garantito lo è ancora meno. Nei Paesi in cui lo stipendio medio è di 20-30 dollari al mese, lavori a 1 centesimo di dollaro per task possono essere interessanti

Mecahnical Turk conta intorno ai 500mila utenti. Ma ci sono giganti come Upwork, che arrivano fino a 12 milioni di iscritti e 750 milioni di ricavi (nel 2013). Per una paga di 20 dollari, ad esempio, viene chiesto di trascrivere in un documento di testo il contenuto di 31 foto. In Cina, principale player nel mondo dei microlavori, domina Zhubajie, con 15 milioni di iscritti. Accanto alle ricerche di freelance per comporre il menù di un ristorante di ramen o il logo di un blog in giapponese, per un budget di 50 dollari viene chiesto di testare la qualità video e audio di alcune app da computer e smartphone, comunicando quante volte si blocca il video e quante volte salta l’audio. Gli altri nomi di piattaforme per freelance e microlavoratori sono Freelancer (22 milioni di iscritti), Taskcn (10 milioni), Crowdsource (8 milioni), Witmart (7 milioni), Care (6,6 milioni), Crowdflower (5 milioni), Epweike (oltre 3 milioni), Fiverr (3 milioni), 99designes (1,35 milioni), Microworkers (873mila) e Clickworker (800mila).

Mettendo insieme tutte le piattaforme, si superano i 100 milioni di lavoratori. Una fetta importante della forza lavoro. Che a fine mese si vede poi recapitare una microbustapaga con la lista di tutte le task realizzate e il compenso ottenuto. Secondo i calcoli della Banca mondiale, la maggior parte dei lavoratori di Amazon Mechanical Turk lavora 10-20 ore a settimana, guadagnando circa 80 dollari al mese. Le ore lavorate dipendono dal tipo di lavoro disponibile. Ma molti full time, in ogni caso, arrivano a 20-40 ore a settimana per uno stipendio di 200-750 dollari al mese. La paga media oraria è di 2-3 dollari. I lavoratori con più esperienza possono arrivare al massimo a 6-8 euro. Solo per le task più qualificate, dagli sviluppatori ai data scientist, si possono toccare i 3mila euro al mese. Ma i microlavori non richiedono alcun tipo di competenza specifica e anche il titolo di studio tra chi svolge queste mansioni è più basso rispetto ai classici freelance: il 38% ha una laurea contro il 75% dei freelance.

La domanda è: chi è disposto a lavorare per pochi centesimi a mansione? «Nei Paesi in cui lo stipendio medio è di 20-30 dollari al mese, lavori come questi possono essere interessanti», dice Casilli.

Upwork

Un’offerta su Upwork

Zhubajie

Un’offerta su Zhubajie

Ma Amazon non è l’unico gigante a essersi dotato di un mercato interno di microlavoro. Anche Microsoft ha la sua piattaforma di annunci: si chiama Uhrs. Per due centesimi di dollaro viene chiesto di decidere se una pagina web è per adulti o no, per sei centesimi se un tag è rilevante o no per la ricerca di una certa pagina. IBM ha creato invece MightyAI. Lo slogan è: “The tools you need to generate training data”. Le mansioni consistono nello stabilire in che lingua è scritto un certo testo o nell’identificare gli oggetti presenti nelle immagini. Tutto con uno scopo: allenare le intelligenze artificiali. Il digital labour, umano, è l’ingrediente segreto.

In alcuni casi, poi, il pagamento può essere in natura, ma digitale. È quello che fa ad esempio il colosso mCent, 30 milioni di utenti diffusi in 93 Paesi. La mansione in questo caso è provare e debuggare determinate app partner. In cambio si ricevono dati da consumare all’interno di altre app. Un modo per avere Internet gratis, insomma.

«Assistiamo a un vero processo di cottimizzazione del lavoro per task. Si viene pagati in quanto cliccatori di task», spiega Antonio Casilli. E il mercato non finisce qui. «Esiste poi l’enorme economia dei clic». Accanto ai social network è nata una vera e propria economia parallela con portali in cui si vendono clic a pagamento. E chi c’è dietro i clic? Ancora folle di microworker. «Chi si fa pagare per condividere e likare certe pagine è situato fisicamente in quelle che vengono chiamate “click farm”». O anche “like farm”. Fabbriche dei clic segretissime, dove gli operai digitali a turno cliccano su alcuni link o mettono mi piace ad alcune pagine Facebook. In Rete si trovano immagini e video di questi stanzoni pieni di computer o smartphone. Channel 4 è riuscita a entrare in una click farm di Dhaka, dove per 3 dollari si comprano mille like di Facebook. E i lavoratori giorno e notte cliccano sulla pagina di siti che non hanno scelto, con una paga di un millesimo di dollaro per clic. Lo scopo è manipolare le statistiche dei social media, collezionare quanti più accessi o condivisioni o far salire una app nei ranking di iTunes. Una frode, in teoria. «Ma ogni Paese nega la presenza delle click farm sul proprio territorio e dice che si trova in quello accanto», commenta Casilli.

Clickfarm

Una click farm in Cina

L’Oxford Internet Institute ha mappato il microlavoro nel mondo. I Paesi con la più alta concentrazione di microlavoratori sono Filippine, India, Bangladesh e Pakistan. E anche se si guarda al mercato dei clic, la distribuzione geografica è più o meno la stessa. I maggiori Paesi acquirenti sono Usa, Canada, Australia e gran Bretagna. I Paesi che li producono Pakistan, Filippine, Nepal, Hong Kong, India, Cina, Bangladesh. In alcuni casi si è anche riusciti a identificare la sorgente dei clic, con scoperte esilaranti. «Da una ricerca che abbiamo condotto, è venuto fuori che la maggior parte dei fan che hanno messo like alla pagina Facebook di Donald Trump viene da Filippine e… Messico», dice Casilli. «Se guardiamo la geografia di questi lavoratori, ci si rende conto che non sono sempre accanto a noi. Al contrario, la maggioranza dei microworker è situata in Paesi in via di sviluppo o Paesi emergenti». Dove sono allettanti anche paghe orarie che in Occidente non vengono prese in considerazione.

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La geografia del microlavoro (Source: Oxford Internet Institute)

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Chi compra e chi vende clic nel mondo (Source: Oxford Internet Institute)

Senza dimenticare che ognuno di noi, nel suo piccolo, è un microworker invisibile che lavora per allenare le intelligenze artificiali fornendo loro i dati di cui si cibano. Prendiamo Google Translate: se ci propone una traduzione che non ci piace, veniamo invitati a suggerire la nostra versione. Google registra la nostra traduzione e immagazzina. Così abbiamo lavorato per Mountaine View. Google Search, allo stesso modo, viene allenato dalle nostre ricerche a suggerire quelle più pertinenti.

Ma non sempre questo meccanismo fila liscio come l’olio. Nel caso di reCAPTCHA di Google, ad esempio, fino a qualche tempo fa per recuperare una password bisognava provare di non essere un robot trascrivendo le parole indicate. Parole che poi venivano a loro volta immagazzinate e usate per gli algoritmi di Google Books destinati al riconoscimento testuale dei libri. Lavoro gratuito, insomma. Tanto che Mountain View ha subito anche una class action per frode in Massachussets da parte di un gruppo di utilizzatori di reCaptcha, che volevano essere riconosciuti come lavoratori salariati. La seconda parola richiesta, dicevano gli avvocati, non è finalizzata alla sicurezza ma va solo a beneficio del business di Google che si avvantaggia del lavoro di trascrizione gratuito. Google intanto ha abbandonato il sistema, chiedendo un solo clic per identificarsi come umani. Ma intanto il giudice federale ha respinto la causa, sostenendo che l’eventuale danno non supera il vantaggio, poiché il lavoro di trascrizione gratuito aumenta la precisione di altri servizi gratuiti come Google Map e Google Books. Una sentenza che fa scuola. Siamo destinati a essere microlavoratori. Con la differenza che quello che i microworker in Bangladesh fanno per uno o due centesimi, noi lo facciamo gratuitamente. Buon lavoro.