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“I lavoratori sono il cuore dell’algoritmo” : intervista ne Il Manifesto (Italia, 9 dicembre 2017)

[NB: This interview has been translated in English, Spanish, and Portuguese]

Nel quotidiano Il Manifesto di sabato 9 dicembre 2017, c’è una mia lunga intervista proposta da Roberto Ciccarelli. Eccola in versione integrale.

Antonio Casilli: «I robot non rubano il lavoro. Siamo noi il cuore dell’algoritmo»

Roberto Ciccarelli 09.12.2017

Lavoro digitale. Intervista ad Antonio Casilli, autore di ricerche pionieristiche sul nuovo capitalismo e sulle lotte da Amazon a Uber. “I lavoratori creano i criteri sulla base dei quali operano le macchine. E poi le educano ad apprendere come migliorare”

Antonio Casilli, professore alla Télécom ParisTech, è considerato uno dei maggiori esperti di capitalismo delle piattaforme. È noto per le ricerche pionieristiche sul «lavoro digitale» che rovesciano il senso comune apocalittico secondo il quale il lavoro è finito a causa dell’automazione. «Siamo noi a formare i robot con il nostro lavoro – sostiene – Produciamo i criteri sulla base dei quali operano. E poi li educhiamo ad apprendere come migliorare. Il problema non è che i robot ci rubano il lavoro, noi continuiamo a lavorare sempre di più e le piattaforme frammentano e rendono invisibile il lavoro necessario per fare funzionare gli algoritmi».

In Italia hanno fatto molto discutere i licenziamenti di due lavoratori Ikea, Marica a Corsico (Milano) e Claudio a Bari. Sono stati licenziati perché le loro vite non si sono incastrate con l’algoritmo che governa la forza lavoro. Siamo tornati all’Ottocento?
Il capitalismo delle piattaforme digitali irrigidisce la disciplina del lavoro, impone una misura e una valutazione apparentemente «scientifiche» che possono assomigliare alle vecchie manifatture industriali. La differenza fondamentale è che i lavoratori, in cambio della sottomissione alla disciplina, non ottengono la protezione sociale e la rappresentatività politica che prima ottenevano in cambio della subordinazione. Questo nuovo taylorismo ha tutti gli svantaggi e nessuna delle compensazioni del vecchio. I lavoratori sono prigionieri di una contraddizione in termini: subordinati e precari al tempo stesso.

Dopo lo sciopero Amazon a Piacenza ha consigliato ai sindacati di fare attenzione anche alla politica dei dati, non solo a quella del lavoro. Cosa significa?
A Piacenza si è vista solo la parte visibile dell’iceberg. Quello è stato uno sciopero in un luogo fisico per ottenere condizioni di lavoro su attività materiali. Esiste tutta una altra parte di Amazon che da anni è in lotta. Penso ai micro-cottimisti di Amazon Mechanical Turk, un sistema di creazione e addestramento di intelligenze artificiali alimentato da micro-lavoratori, persone pagate a cottimo per qualche centesimo per realizzare mansioni di gestione dati, immagini o testi. Questi lavoratori devono auto-organizzarsi per ottenere migliori compensi e condizioni di lavoro più umane. Su questo i sindacati devono recuperare terreno perché i “Turkers” svolgono mansioni troppo piccole per essere visibili ai loro occhi.

Lo stanno facendo?
Sì, anche se al momento con iniziative diverse su scala nazionale. In Germania i metalmeccanici dell’IgMetall ha messo a disposizione una piattaforma per le rivendicazioni: FairCrowdWork. In Francia la Cgt ha creato Syndicoop che aiuta i sindacalisti a federare lavoratori attorno a una campagna. In Belgio c’è SMart: una cooperativa, e non un sindacato, che si occupa di lavoratori freelance e lavora anche con i rider delle consegne a domicilio. È in atto un processo dove i sindacati classici cercano di “piattaformizzarsi”, mentre le cooperative creano servizi su base mutualistica per i lavoratori delle piattaforme.

Dalle lotte dei rider italiani è emersa la richiesta di essere inquadrati nel contratto della logistica. È così in Francia e negli altri paesi?
Nell’economia alla domanda i servizi basati su piattaforme e prodotti in tempo reale sono al centro di una grande controversia legale e politica sulla contrattualizzazione dei lavoratori. Fino a ora l’obiettivo è regolarizzare la loro posizione in un contratto di settore che assomigli a quello della piattaforma. Su Uber in America, in Europa e in Corea le lotte sindacali convergono sul riconoscimento da lavoratori del settore dei trasporti urbani. In Amazon si cerca il riconoscimento del contratto degli operatori postali. Serve allargare ancora lo schema di azione.

In che modo?
Riconoscendo tutti i micro-lavori fatti dai «lavoratori del click», anche quelli pagati a cottimo per qualche centesimo per realizzare mansioni come la gestione dei dati, delle immagini o dei testi. Il loro lavoro serve al machine learning, a insegnare alla macchina ad apprendere e a creare l’intelligenza artificiale.

E come si fa?
Tutto passa dalla quantità di informazione prodotta. E su come e quanto le piattaforme approfittano di questa produzione di dati. Uber prende tra il 20 e il 40 per cento su ogni transazione che avviene sulla piattaforma e conosce bene il valore prodotto. Bisogna redistribuire una parte della ricchezza prodotta ai lavoratori delle piattaforme. Pur non essendo salariale questa redistribuzione sarebbe senz’altro più equa di quella esistente.

Quali sono altri esempi di micro-lavoro digitale?
Ce ne sono tantissimi. È un mercato globale che contiene almeno 100 milioni di lavoratori. In Cina, in India,nelle Filippine, in Indonesia esistono piattaforme e servizi poco conosciuti in Europa. Sviluppano lavori estremamente diversi che permettono alle economie digitali occidentali di funzionare. In questi paesi è possibile incontrare il valutatore (rater) del motore di ricerca di Google. Sono i lavoratori che controllano che i risultati di una ricerca siano giusti e correggono il tiro aggiustando l’algoritmo. Oppure ci sono i moderatori di contenuti su Facebook o su Youtube che passano le loro giornate a giudicare se un video o una foto rispettano le condizioni di uso delle piattaforme. Insegnano agli algoritmi di filtraggio quali sono i contenuti da censurare. Possiamo anche parlare dei clickworkers che condividono, mettono “like”, spingono messaggi pubblicitari o video di celebrità per i quali sono pagati anche meno di un centesimo al click. Sono il vero carburante del marketing virale che fa vivere le marche più famose sui social network.

L’economia alla domanda è anche un’economia della reputazione e dell’attenzione dove è centrale la figura del consumatore. In che modo i lavoratori possono coinvolgerli nelle loro rivendicazioni?
Prima di tutto riconoscendo che il consumatore fa lo stesso lavoro del fattorino di Deliveroo o del micro-cottimista di Amazon Mechanical Turk.

In cosa consiste il lavoro del consumatore?
Anche lui produce dati. Questi dati sono usati per addestrare l’intelligenza artificiale. Il consumatore produce una massa critica di scambi e transazioni che permettono alla piattaforma di esistere sul mercato. Un consumatore è parte attiva e cruciale dell’esistenza dell’algoritmo. Svolge quotidianamente una quantità enorme di gesti produttivi che sono assimilabili a quelli dei lavoratori digitali. Anche chi usa Youtube modera gratuitamente i video, segnala quelli che non sono appropriati. Chi si serve di Google allena l’algoritmo del motore di ricerca a imparare i termini più ricercati sulla base delle parole inserite da noi e da altri. Il consumatore è un produttore. Le frontiere tra questi soggetti dell’economia convergono al punto che si potrebbe dire che quando la piattaforma non vuole pagarti ti chiama consumatore e invece quando è disposta a pagarti (poco) ti chiama cottimista o micro-lavoratore.

Ha parlato di “lavoro gratuito”. Qual è il ruolo che occupa nell’economia digitale?

Il lavoro gratuito è stato definito da Tiziana Terranova già vent’anni fa. Anche allora stare in rete era un lavoro perché produceva contenuti per i siti e quelli che all’epoca si chiamavano “portali”. Negli ultimi dieci anni questa idea del lavoro gratuito è cambiata quando ci siamo resi conto che le piattaforme non commercializzano solo i nostri contenuti, ma commercializzano soprattutto i nostri dati personali e le informazioni. Quali marche ci piacciono o a che ora ascoltiamo musica. Dove siamo con il Gps. Il lavoro gratuito dell’utente di internet non è un lavoro creativo, ma è un lavoro inconscio e molto meno soddisfacente perché invisibile. In quanto tale alienante nella misura in cui non ci rendiamo conto a cosa servono e come sono usati i dati quando facciamo un recaptcha su Google o mettiamo una Tag su un’immagine su Instagram.

Per cosa sono usati questi dati?
Per produrre valore monetario per le grandi piattaforme che fanno compravendita di informazioni ma sono anche usati per creare il valore di automazione: addestrare intelligenze artificiali, insegnare alle chat box a dialogare con gli esseri umani, creare assistenti virtuali come Siri sull’Iphone o Alexa su Amazon che parlano con noi e ci aiutano a fare scelte anche al posto nostro.


Il tratto comune tra le lotte dei ciclo-fattorini di Foodora o di Deliveroo, quelle di Amazon e quelle nei paesi dei “lavoratori del click, è dunque il lavoro digitale?

Sì, queste lotte sono accomunate da una forma di lavoro diversa rispetto a quelle a cui eravamo abituati nel secolo scorso. Oggi il lavoro digitale passa attraverso le piattaforme digitali che vanno considerate come un tipo di organizzazione produttiva. In più, le piattaforme sono imprese e mercati. Amazon è un’impresa delle più tradizionali con una cultura brutale della disciplina del lavoro, lo si vede ad esempio nei magazzini ma anche negli uffici. Ma Amazon è anche un mercato, un marketplace basato su un enorme catalogo e su compravendite meno conosciute, quelle dei dati. Deliveroo è la stessa cosa: è un impresa, con dipendenti, risorse materiali e immateriali ed è al tempo stesso un mercato del lavoro che connette clienti, attività produttive e fattorini. In questo caso la piattaforma opera un matching algoritmico, crea una correlazione tra soggetti diversi. In Amazon la correlazione è tra chi produce un prodotto e chi lo compra.

Lei è un sostenitore del reddito di base. In che modo può tutelare la forza lavoro digitale intermittente e precaria?
Riconoscendo il lavoro dei dati che passa dalle piattaforme. Lo ha già sostenuto un rapporto del ministero francese delle finanze nel 2013 e un rapporto della fondazione Rockfeller l’anno scorso. I giganti del digitale non vanno tassati sulla base di quanti data center o uffici hanno in un paese, ma sulla base dei dati prodotti dagli utenti delle piattaforme. Se in Italia ci sono 30 milioni di utenti di Google, è giusto tassare Google sulla base dei profitti ottenuti grazie alla loro attività. Così si può finanziare un reddito di base, un reddito digitale connesso al lavoro digitale che ciascuno di noi svolge su Internet o sulle «app» mobili.

***Antonio Casilli ha scritto, tra l’altro, Qu’est-ce que le digital labor? Editions de l’INA con D. Cardon, 2015; Stop Mobbing (DeriveApprodi, 2000); La Fabbrica Libertina (Manifestolibri, 1997)

Lessons from Amazon’s Italian hub strike: industrial action that does not factor in both work AND data is doomed to be ineffective

On Nov 24, 2017, the three main Italian unions (CGIL, CISL, UIL) have called for a strike over the failure to negotiate Black Friday bonuses for the 1,600 permanent workers at the distribution hub near the Northern town of Piacenza. Unions say 50% of the workers partake in the strike. Amazon says it was more like 10%.

Bottom line: the strike did not stop Black Friday in Italy. Someone was working. Yet, according to several sources, it was not not permanent workers, but the 2,000 temps that Amazon recruited until Xmas who saved the day. They were not hired to replace striking workers. Even in Italy, this would be illegal. They were hired to face Nov./Dec. surge in retail sales. And of course they did not stop working on Black Friday 2017. That said, Amazon is known internationally for its brutal workplace discipline, its anti-labor stance, and has been accused of hiring temps, contingent workers and even workampers to edge out unionized labor force.

In Italy, one can recruit a lot of those. Unemployment is at 11.1% and there’s a millions-strong industrial reserve army of faux-freelance, part-timers, “coordinated collaborators”, “project-contractors”, “leased staff” and many other forms of non-standard employees. Especially since the infamous Jobs Act heralded by the government of former PM Matteo Renzi, among young workers temp jobs accounts for 50% of employment and they are up 7% since Sept 2017.

But Italian retail workers and their strike tell only part of the story. Amazon isn’t about e-commerce: it’s about big data. Interestingly, Matteo Renzi’s government has been very helpful in facilitating the strategy of “data entryism” of the Seattle giant, going as far as to hire Amazon’s former vice-president and now-biggest employee shareholder of the platform as “Commissioner for Digital Italy”. He’s doing this for free, and you know what they say when you’re not paying for something…

Which brings us to the main point. Amazon strategy is predicated on data and work. Even better: it is predicated on data-as-work, because it extracts value from the data stored in its humongous cloud and hosting services, and because it uses people-as-a-service (according to Jeff Bezos’s early characterization of Amazon Mechanical Turk) to train, enrich, refine data.

Btw, do you wanna know what the new Italian Digital Commissioner considers as a success story for digital transformation? The controversial Indian biometric ID system… And do you know where 36% of Amazon Mechanical Turkers live? India… (Here’s the interview [in Italian] where the Digital Commissioner talks about Indian ID system while at the same time declaring that “he misses Amazon so much”).

Take-away message: Amazon corporate takeover of Italy is as much a matter of labor policy as it is of data politics. As long as the unions continue to focus on the former while neglecting the latter, their action is doomed to be ineffective. Case in point: after dominating Black Friday sales, Amazon’s shares are up 2% and Jeff Bezos is still world’s wealthiest man. So Amazon Italia just gave a giant middle-finger to workers by cancelling the meeting with unions and rescheduling it for after Xmas…

[Séminaire #ecnEHESS] Nikos Smyrnaios “Les GAFAM : notre oligopole quotidien” (20 mars 2017, 17h)

Enseignement ouvert aux auditeurs libres. Pour s’inscrire, merci de renseigner le formulaire.

Dans le cadre de notre séminaire EHESS Etudier les cultures du numérique, nous avons le plaisir d’accueillir Nikos Smyrnaios (Université Toulouse 3) et auteur de l’ouvrage Les GAFAM contre l’internet : une économie politique du numérique (INA Editions, 2017).

Pour suivre le séminaire sur Twitter : hashtag #ecnEHESS.

ATTENTION : CHANGEMENT DE SALLE : La séance se déroulera le lundi 20 mars 2017, de 17h à 20h, salle 13, 6e étage, EHESS, 105 bd. Raspail, Paris 6e arr.

Titre : GAFAM: logiques et stratégies de l’oligopole qui a pris le contrôle de nos outils numériques

Intervenant : Nikos Smyrnaios
Résumé : “Quelques startups autrefois ‘sympathiques’ ont donné naissance à des multinationales oligopolistiques qui régissent le cœur informationnel de nos sociétés au point qu’un acronyme, GAFAM, leur soit dédié. Google, Apple, Facebook, Amazon et Microsoft sont les produits emblématiques d’un ordre capitaliste nouveau qu’ils contribuent eux mêmes à forger, légitimer et renforcer. Cet ordre néolibéral s’inscrit résolument contre le projet originel de l’internet. La conférence s’intéressera précisément aux conditions qui ont permis l’émergence de cet oligopole et aux stratégies que celui-ci met en œuvre pour  contrôler nos outils de communication quotidiens et les plateformes qui nous utilisons pour accéder à l’information et aux contenus en ligne (exploitation du travail, évitement de l’impôt, concentration horizontale et verticale, infomédiation, exploitation des données personnelles etc.).”

Prochaines séances

mturk 10 avril 2017
Mary Gray (Microsoft Research)
Behind the API: Work in On-Demand Digital Labor Markets
datanomix 15 mai 2017
Louis-David Benyayer (Without Model) et Simon Chignard (Etalab)
Les nouveaux business models des données
magna 19 juin 2017
Juan Carlos De Martin (NEXA Center for Internet & Society)
Looking back at the 2015 ‘Declaration of Internet Rights’

[Slides séminaire #ecnEHESS] Mechanical Turk et le travail invisible des données (7 mars 2016)

Pour la séance du 7 mars 2016 de mon séminaire EHESS Etudier le cultures du numérique, j’ai eu le plaisir d’accueillir Jérôme Denis (Télécom ParisTech, co-auteur de Petite sociologie de la signalétique, 2010) et Karën Fort (Université Paris-Sorbonne, porteuse du projet ZombiLingo). Une intervention d’Elinor Wahal (Université de Trento) a complété leurs exposés.

Résumé : Les plus fervents avocats et les plus féroces critiques des projets de big data ou d’open data partagent l’idée que les données sont des entités informationnelles solides et puissantes. Qu’elles soient décrites comme un pétrole, comme un déluge, ou comme une technologie de gouvernance, celles-ci semblent toujours appréhendées dans un cadre positiviste, qui fait de leur existence et de leurs propriétés des évidences. Pourtant, celles et ceux qui « produisent, » «  saisissent »  ou « nettoient » des données savent que leur existence et leur circulation passent par des opérations délicates et coûteuses. Je propose d’explorer cet aspect méconnu des données en montrant d’abord que l’histoire de l’émergence des données dans les organisations est étroitement liée à la mécanisation et à l’invisibilisation du travail de l’information. À partir de deux études ethnographiques (dans une banque et dans une start-up), je mettrais ensuite en lumière quelques dimensions de ce travail et des conditions de son invisibilisation. À travers ce parcours, je tâcherai de donner à comprendre l’écologie du visible et de l’invisible qui est en jeu dans le processus fragile et incertain par lequel des choses très différentes, souvent indéfinies, deviennent progressivement et temporairement des données.

Résumé : Dans le cadre des travaux des étudiants du séminaire, une intervention sur les plateformes de micro-travail a été assurée par Elinor Wahal (EHESS/Univ. Trento).

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Karën Fort – Ce qu’Amazon Mechanical Turk fait à la recherche : l’exemple du Traitement Automatique des Langues

Résumé : La plateforme de myriadisation du travail parcellisé (microworking crowdsourcing) Amazon Mechanical Turk permet aux chercheurs de déposer des micro tâches (Human Intelligence Tasks) pour les faire réaliser par des travailleurs (des Turkers) pour une micro-rémunération. Le traitement automatique des langues (TAL) étant très gourmand en ressources langagières (lexiques, corpus annotés, etc), les chercheurs du domaine se sont rapidement emparés de cette plateforme pour produire des données à bas coût. Nous montrerons que cette évolution n’est pas sans conséquence sur la recherche, en termes de qualité et d’éthique. Enfin, nous présenterons les réactions et les alternatives proposées, notamment par le biais des sciences participatives et nous vous présenterons le projet Zombilingo.