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[Video] Intervista con la Fondazione Giannino Bassetti (4 dic. 2020)

Intervista condotta da Gabriele Giacomini (Fondazione Giannino Bassetti).

Per limitare l’avidità di dati serve una fiscalità del digitale

L’obiettivo di questo “secondo giro” di interviste è, in primo luogo, analizzare le principali sfide alla cittadinanza poste dalla diffusione pervasiva delle ICT e in secondo luogo, individuare le diverse proposte teoriche e pratiche avanzate da filosofi, giuristi, politologi, nonché le azioni fattuali che sono state messe in campo da istituzioni private, amministrazioni locali e governi statali per la promozione di una cittadinanza digitale autonoma e consapevole, che porti all’elaborazione di un habeas mentem adeguato alle sfide presenti e future di una comunità politica (nel senso di polis) sempre più innervata dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. (NdR)

(Sotto il video, sintesi ed elenco delle domande.)

Antonio A. Casilli è professore ordinario di Sociologia alla Telecom Paris, scuola di ingegneria delle telecomunicazioni dell’Institut Polytechnique de Paris. Dal 2007 coordina il seminario “Studiare le culture digitali” alla Scuola di studi superiori in scienze sociali di Parigi (EHESS). È fra i fondatori dell’INDL (International Network on Digital Labor). Fra i suoi libri, tradotti in diverse lingue: “Les Liaisons numériques” (Editions du Seuil 2010), “Against the hypothesis of the end of privacy” (con Paola Tubaro e Yasaman Sarabi, Springer 2014), “Trabajo, conocimiento y vigilancia” (Editorial del Estado 2018), “Schiavi del clic” (Feltrinelli 2020).

Intervista del 13 novembre 2020.

Con le tecnologie digitali non siamo usciti dalla società industriale. Abbiamo, invece, aggiunto un nuovo “livello”, rappresentato dalla “datificazione” del reale. L’informazione, rappresentata dai dati, diventa un fattore produttivo centrale.
Grandi protagonisti di questa nuova fase del capitalismo sono le piattaforme, architetture informatiche, caratterizzate da vere e proprie finalità politico-programmatiche (come suggerisce la genealogia del concetto “piattaforma”). La loro filosofia si basa su tre principali idee: la condivisione libera dell’informazione, la diffusione del lavoro autonomo e l’abbandono del lavoro salariato, il superamento degli stati-nazione. Inoltre, rispetto alle imprese del secolo scorso, le piattaforme oltrepassano i confini dell’azienda in senso stretto, diventando delle aziende-mercato, e non sono più dominate dall’ossessione di produrre valore, ma di estrarre valore dai loro utenti-produttori. Alla base del capitalismo digitale, dunque, troviamo una massa di lavoratori impliciti che, in diverse forme, producono l’enorme mole di dati necessaria al funzionamento delle piattaforme.
La gestione (e il controllo) dei dati diventa, quindi, terreno di contesa fra piano economico e piano politico, fra il livello dei consumi e quello della cittadinanza. Un esempio di ciò è la “fine della privacy”. Secondo i lobbisti delle piattaforme, la privacy in quanto valore politico sarebbe una parentesi storica. Ovviamente, la “fine della privacy” è commercialmente utile per le piattaforme. Al contrario, la privacy è un problema per il business model di molte piattaforme, che acquisiscono dati e li rivendono. Per i cittadini, invece, la privacy resta una delle preoccupazioni sociali principali. Lo manifestano in modo diretto, ad esempio crittografando le loro comunicazioni, oppure facendo “pulizia” dei propri dati sulle piattaforme. Le piattaforme cercano di liberare i dati, gli utilizzatori invece cercano di chiuderli tatticamente.
Il GDPR europeo ha provato una sintesi fra promozione del mercato digitale e rispetto di standard minimi di protezione dei dati personali. Si tratta di un primo passo nella giusta direzione. Ma ci sono altri strumenti: ad esempio, l’antitrust, che può redistribuire il potere di mercato delle grandi piattaforme ma che può essere utilizzato anche per impedire a professionisti e lavoratori indipendenti del digitale di federarsi e sindacalizzarsi. Promettente sembra essere il settore della fiscalità del digitale. Così come è stata introdotta una tassa sulla produzione dell’inquinamento, si potrebbe congegnare una tassa sull’estrazione dei dati della popolazione di uno stato. Sarebbe un incentivo a limitare l’estrazione dei dati, perché questa avrebbe un costo maggiore rispetto ad oggi e spingerebbe le imprese digitali a soluzioni meno avide in termini di dati. È assolutamente sbagliata, invece, l’idea di retribuire gli utenti.

Queste le domande poste nell’intervista:

1. min. 0:51 – Rispetto alla società industriale, quali sono i poteri emergenti connessi allo sviluppo delle tecnologie digitali?
2. min. 4:53 –Nel tuo ultimo libro, “Schiavi del clic”, presenti il concetto di piattaforma attraverso la sua genealogia, facendone emergere l’aspetto politico. Quale è la natura essenziale delle piattaforme digitali e quali sono le varie forme con cui si declinano?
3. min. 16:57 –Fra le varie “profezie desideranti” delle piattaforme troviamo la fine dalla privacy su Internet. Questa idea ti convince? Gli individui sono pronti a sbarazzarsene o tengono ancora alla loro privacy? 
4. min. 28:12 –Che ne pensi del Regolamento generale sulla protezione dei dati dell’Unione Europea? Quali sono i suoi punti di forza e quali i punti di debolezza? 
5. min. 32:38 –Oltre al GDPR, quali sono gli altri strumenti per limitare la raccolta dei dati personali e la profilazione dei comportamenti? Si pensi, ad esempio, all’antritrust.
6. min. 41:05 –Considerato che i dati raccolti dalle piattaforme dipendendo dal “lavoro volontario” in rete degli utenti, questi ultimi dovrebbero essere “retribuiti”? È una operazione auspicabile e realizzabile? 
7. min. 49:02 –I “diritti digitali” di cui si discute da alcuni anni sono molti: oblio, identità digitale, accesso, anonimato, partecipazione eccetera. Quale è il diritto più importante nella società digitale? 
8. min. 52:49 –La “rivoluzione digitale” sollecita in molti modi la democrazia. Quale sarà il suo futuro?

Recensione di “Schiavi del clic” (Vita.it, 18 sett. 2020)

Un’ottima recensione a cura di Marco Dotti.

Schiavi del clic. L’automazione, la disoccupazione e l’esternalizzazione del micro-lavoro

Le inquietudini contemporanea sulla scomparsa del lavoro sono un sintomo della vera trasformazione in atto: non la sua scomparsa ma la sua digitalizzazione. Questa dinamica tecnologica e sociale mira alla trasformazione del gesto produttivo umano in micro-operazioni sotto remunerate o non remunerate. Un libro di Antonio A. Casilli ci aiuta a fare il punto sulla questione

«La grande industria deve proseguire il processo di modernizzazione tecnologica. (…) Deve aumentare l’automazione, l’uso dei robot, l’introduzione delle nuove tecnologie». Pur nella consapevolezza che «tutto ciò ha come inevitabile conseguenza quella di espellere manodopera». Intervistato da Eugenio Scalfari su la Repubblica il 3 gennaio 1985, Gianni Agnelli esprimeva così la sua idea di innovazione. 

Antonio A
Antonio A. CasilliSchiavi del clic (Feltrinelli, 2020)

Nelle parole di Agnelli non è difficile riconoscere l’eco e il fil rouge di un’idea espressa da uno dei padri dell’economia politica, Ricardo, nel celebre capitolo sulle macchine incluso nella terza edizione dei Principi dell’economia politica e della tassazione (1821): tecnologia e l’innovazione bruciano posti di lavoro.

L’innovazione ha sempre un prezzo e la precondizione affiché un’innovazione sia considerata vantaggiosa e efficiente è che comporti meno spese fisse della manodopera umana.[1] Perché, a dispetto di tutte le tesi sociologiche e futurologiche, non hanno ancora sostituito la forza lavoro con le macchine?, si chiedeva un sociologo italiano sul finire degli anni 90. Dandosi una risposta: «l’uomo costa meno».

Se constano meno gli uomini delle macchine

Prendiamo un caso, riportato da Antonio A. Casilli nelle prime pagine del suo Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo (pagine 316, euro 19) da poco mandato in libreria per i tipi di Feltrinelli, nella traduzione di Raffaele Alberto Ventura e con una postfazione di Dominique Méda.

Una start-up francese, fiore all’occhiello dell’innovazione d’Oltralpe, che usa l’intelligenza artificiale (IA) per proporre acquisti personalizzati di articoli di lusso a clienti di alta fascia. Abbastanza chiaro: l’IA aggrega dati, traccia, mappa e, in base alle tracce digitali del cliente, propone auto, vacanze, prodotti di lusso cernendo tra milioni di offerte. Eppure, qualcosa non torna, perché – come titola Casilli – questa più che un’IA, è una IA…A. Dove l’ultima “A” sta per Antananarivo.

Che cosa c’entra la capitale del Madagascar con una start-up per megaricchi francesi? Un candido e ingenuo stagista scopre l’arcano: non esiste algoritmo, né intelligenza irtificiale nella scatola lucicante di quella start-up. Non un ingegnere assunto, non un data scientist.

Digitale

Tutta l’attività ufficialmente svolta dall'(inestistente) intelligenza artificiale è stata esternalizzatain Madagascar, dove «al posto dell’IA, ovvero un robot intelligente che avrebbe raccolto sul web delle infomazioni e restituito un risultato dopo aver eseguito un calcolo matematico, i fondatori della start-up hanno messo in piedi una semplice piattaforma digitale».

In altri termini: un normalissimo software che trasporta dati a persone disposte a fare il lavoro sporco, fingendosi “intelligenze artificiali”.

Una tipica esternalizzazione mascherata da innovazione, molto meno dispendiosa che reali investimenti in algoritmi e tecnologia. 

Non è dato sapere quante start-up si siano in questa condizione, ma è noto che intere regioni dell’Africa, in particolare Uganda e Mozambico, vedano le persone di interi villaggi o quartieri impegnate a cliccare su immagini, a trascrivere stringhe di testo o ad allenare gli stessi algoritmi che, presto o tarti, li sostituiranno. Per ora, la storia dice anche altro: ci sono ancora umani che «rubano il posto ai robot».

Digital labor e piattaforme

Ovviamente il lavoro di Casilli non si limita a questo aneddoto. Ma parte da qui per rovesciare molti schemi, attraverso un discorso critico serio e rigoroso sul digital labor e il tempo presente.

L’originalità della situazione attuale, scrive Casilli, non sta negli effetti distruttivi che l’automazione potrebbe avere sull’occupazione: «le profezie sulla “fine del lavoro” risalgono all’alba della civiltà industriale. Se vogliamo davvero comprendere l’effetto di questa trasformazione sulle attività umane, dobbiamo riconoscere stimare la quantità di lavoro incorporata nell’automazione stessa. Le inquietudini contemporanee sulla scomparsa del lavoro sono un sintomo della vera trasformazione in atto: non la sua scomparsa ma la sua digitalizzazione. Questa dinamica tecnologica e sociale mira alla trasformazione del gesto produttivo umano in micro-operazioni sotto remunerate o non remunerate, al fine di alimentare un’economia dell’informazione basata principalmente sull’estrazione di dati e sull’assegnazione a operatori umani dimensioni produttive costantemente svalutate».

«I sogni dei robot intelligenti si nutrono dei profitti dei nuovi oligopoli», scrive Casilli che con questo libro ci dà uno strumento di critica seria e rigorosa. Senza critica, la retorica sull’automazione (anche quella apocalittica) rischia infatti di nascondere ben altre questioni. Su tutte: il ramificarsi dell’egemonia delle piattaforme, modelli di organizzazione economica il cui core business si intreccia sempre più con le nostre vite.

Note

[1] Per contestualizzare il dibattito in cui si inseriscono le parole di Agnelli, il rinvio va al lavoro di Antimo NegriCiviltà tecnologica: disoccupazione e tempo libero, in ID., I tripodi di Efesto. Civiltà tecnologica e liberazione dell’uomo, SugarCo edizioni, 1986, p. 207.

[Update Gennaio 2021] Arriva in libreria ‘Schiavi del clic’ (Feltrinelli), traduzione italiana del mio ‘En attendant les robots’!

UPDATE GENNAIO 2021 : Schiavi del clic è stato selezionato nella cinquina dei finalisti del Premio Galileo per la divulgazione scientifica.

Il 17 settembre 2020 arriva nelle librerie italiane Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo? traduzione del mio pluripremiato En attendant les robots, uscito in Francia nel 2019. È la Feltrinelli Editore che ha curato questa bella iniziativa, e per la traduzione ha fatto appello alla penna del saggista Raffaele Alberto Ventura.

Descrizione

C’è un’opinione diffusa sulla rivoluzione tecnologica ed è che l’intelligenza artificiale sostituirà gli uomini, cancellando il lavoro come lo conosciamo. Questa idea è del tutto infondata. L’intelligenza artificiale non renderà superfluo il lavoro. Al contrario: gli operai del clic sono il cuore dell’automazione.  Con un’inchiesta sul nuovo capitalismo delle piattaforme digitali, Antonio Casilli dimostra che, in realtà, l’intelligenza artificiale ha sempre più bisogno di forza lavoro, che viene reclutata in Asia, in Africa e in America Latina. Gli operai del clic leggono e filtrano commenti sulle piattaforme digitali, classificano l’informazione e aiutano gli algoritmi ad apprendere.  Quella in corso è una rivoluzione profonda e ci riguarda da vicino, perché trasforma il lavoro in un gesto semplice, frammentario e pagato sempre meno o addirittura nulla, quando a compierlo sono addirittura i consumatori. Quante volte al supermercato abbiamo scelto le casse automatiche per evitare la fila? Così, con una velocità esponenziale, l’accumulazione gigantesca dei dati alla quale tutti partecipiamo si converte in una forma di lavoro non retribuito, di cui spesso siamo inconsapevoli. È un nuovo taylorismo, nel quale le piattaforme digitali come Amazon, Facebook, Uber e Google sono i principali attori capaci di sfruttare i propri utenti inducendo gesti produttivi non remunerati. Stiamo creando una tecnologia che ha bisogno di lavoro umano e ne avrà bisogno sempre di più. Un lavoro non sarà mai sostituito da un’automazione. Perciò le lotte per il riconoscimento di questo lavoro sono legittime e soprattutto necessarie.

Quarta di copertina

Le profezie sulla “fine del lavoro” risalgono all’alba della civiltà industriale. Anche oggi c’è un’opinione diffusa sulla rivoluzione tecnologica, ed è che l’intelligenza artificiale sostituirà gli uomini, cancellando il lavoro come lo conosciamo. Un’idea del tutto infondata. Le nostre inquietudini sono un sintomo della vera trasformazione in atto: non una scomparsa del lavoro, ma la sua digitalizzazione. Con un’inchiesta sul nuovo capitalismo delle piattaforme, Antonio Casilli getta luce sulla manodopera dell’economia contemporanea: centinaia di migliaia di schiavi del clic vengono reclutati in Asia, in Africa e in America Latina per leggere e filtrare commenti, classificare le informazioni e aiutare gli algoritmi ad apprendere. È una rivoluzione che ci riguarda da vicino, molto più di quanto vorremmo vedere, perché trasfigura il lavoro in un gesto semplice, frammentario e pagato sempre meno o perfino nulla, quando a compierlo sono addirittura i consumatori. Casilli esplora le strategie e le regole del nuovo taylorismo, nel quale Amazon, Facebook, Uber e Google sono gli attori principali grazie alla capacità di sfruttare i propri utenti inducendo gesti produttivi non remunerati. Servono tutti gli strumenti della sociologia e della scienza politica, del diritto e dell’informatica per smascherare le logiche economiche della società plasmata dalle piattaforme digitali. Per la prima volta, con questo libro riusciamo a immaginarne il superamento: la posta in gioco della nostra epoca è la lotta per il riconoscimento del lavoro di chi fa funzionare le macchine senza diritti e, spesso, senza consapevolezza. Siamo tutti lavoratori digitali e abbiamo bisogno di una nuova coscienza di classe. L’intelligenza artificiale è fatta da milioni di persone senza diritti. Lavoratori invisibili e consumatori inconsapevoli. Siamo tutti schiavi del clic.   Ecco come possiamo smascherare lo sfruttamento che il nuovo capitalismo tiene nascosto.