digital platform

Ne La Stampa (Italia, 23 nov. 2017)

Di ritorno dal Belgio, dove avevo appena partecipato al workshop ENDL-2 e dove ho potuto seguire da vicino la vicenda Deliveroo/SMart, ho rilasciato un’intervista al quotidiano La Stampa. Ecco il risultato, egregiamente spiegato da Barbara D’Amico.

 

Deliveroo contro la coop che tutela i fattorini

Barbara D’Amico


I diritti dei lavoratori del digitale europei assomigliano sempre più a un piatto servito freddo e senza contorno. Lo scorso 25 ottobre, infatti, una delle più note aziende di consegna di cibo a domicilio, Deliveroo, ha annunciato di voler interrompere la collaborazione avviata in Belgio con la cooperativa Smart: la stessa che nel 2015 era riuscita a inquadrare la maggior parte dei fattorini della start-up attivi nel paese grazie a un accordo con l’azienda per garantire loro assicurazione, salario minimo e previdenza. Ciò significa che dal 2018 gli oltre 3200 rider di Deliveroo Belgio non avranno più quella tutela minima che la cooperativa dei freelance era riuscita a garantire in modo diretto. Smart è una realtà nata proprio in Belgio alla fine degli anni Novanta per tutelare i freelance più a rischio, quelli del mondo dello spettacolo. Oggi conta oltre 90 mila soci in tutto il mondo e si è allargata a dismisura: non più solo artisti e attori, ma anche videomaker, sviluppatori, giornalisti, insomma chiunque lavori in proprio. Il suo successo è dovuto al modello mutualistico: grazie al fondo alimentato dalle trattenute sulle commesse dei lavoratori inquadrati, Smart ne sostiene gli oneri previdenziali e gli anticipi su quanto dovuto dai clienti, preoccupandosi di tutta la parte amministrativa e contrattuale che in genere pesa sul singolo.

Perché il caso belga è importante per l’Italia

Le startup del food delivery impazzano anche in Italia, così come da noi è presente Smart da tre anni. Insieme all’Associazione italiana dei lavoratori autonomi, ACTA, la cooperativa sta lavorando alla proposta di modifica dello Statuto del Lavoro Autonomo avanzata dal giuslavorista Pietro Ichino per superare la divisione tra lavoro dipendente e lavoro freelance e ottenere tutele omogenee per tutti (tramite il meccanismo della cosiddetta umbrella company). Il caso belga però ha messo in allarme queste realtà e ora una normativa nazionale sembra essere l’unica soluzione contro i colpi di testa delle imprese di servizi digitali. «La decisione di Deliveroo è stata favorita anche da un progetto di legge del governo belga che sottrae a fiscalità e contribuzione i redditi da lavoro autonomo fino a 6 mila euro – si legge nel comunicato con sui Smart ha denunciato l’accaduto – Uno scenario che interessa in modo particolare i platform workers». Deliveroo ha scelto in Belgio di pagare meno tasse sul lavoro dei ciclo-fattorini, rinunciando ad avvalersi di un intermediario per la parte di contrattualizzazione tra azienda e rider che come la maggior parte dei “platform workers”, cioè i lavoratori a chiamata nell’era digitale, realizzano mansioni affidate grazie a un’app gestita dall’azienda.

Non chiamateli lavoretti

«Smart svolge un servizio che queste aziende non forniscono, come caricarsi degli oneri previdenziali dei lavoratori – spiega a La Stampa Antonio Casilli, esperto di lavoro digitale e professore associato presso il Telecommunication College of the Paris Institute of Technology (Télécom ParisTech) -. Le piattaforme di food delivery sono al centro di polemiche, lotte e scioperi dei lavoratori della app e le proteste dei rider sono fatte a posta per ottenere protezioni sociali che non vengono garantite perché, dicono queste aziende, portare pasti a casa è un lavoretto: invece non è così, si tratta di lavoro vero e proprio perché porto una divisa, rappresento l’azienda, rispondo a chiamata e ho una app che controlla in qualche modo quello che faccio in maniera anche più pervasiva di quanto non accadesse prima dell’avvento delle app.

A caccia di flessibilità

Nel caso specifico, Deliveroo, come altri concorrenti, ha inizialmente proposto di affiliare i rider in modo permanente, per fidelizzarli e per fare massa critica, ma una volta raggiunto il numero di fattorini necessari ha iniziato a flessibilizzare il lavoro interno. Queste aziende vogliono ancora più flessibilità. Vogliono il cottimo». Eppure formule di tutela come quelle su cui Deliveroo poteva contare sono una garanzia per le stesse aziende. E’ grazie al fondo di Smart se, sempre in Belgio, nel 2016 i fattorini di un’altra startup del cibo a domicilio, Take Eat Easy, si sono visti saldare i pagamenti dopo il fallimento della società (e nonostante questa avesse ottenuto investimenti per 10 milioni di euro http://startupitalia.eu/61480-20160726-take-eat-easy-rocket-internet).. Abbiamo verificato le comunicazioni di Smart Belgio ai suoi associati, e confermano che nel luglio 2016 la cooperativa si è impegnata a versare 360 mila euro di compensi ai rider perché le casse della società erano vuote. Lo ha fatto fino al 25 luglio di quell’anno.

Il gioco dello scaricabarile

Secondo i dati di CB Insights, società di analisi finanziaria internazionale, quella del food delivery non è una vera e propria bolla ma un settore altamente competitivo all’interno di mercato, quello del cibo, che vale 650 miliardi di dollari e in cui anche i più bravi faticano a restare a galla. Dopo un exploit, nel 2010, con una miriade di società e servizi, si è poi passati alla fase delle concentrazioni e acquisizioni da parte di pochi mastodontici marchi (da Amazon, a Uber) difficili da battere. L’unico modo per restare competitivi, specie nel campo delle consegne dei pasti a domicilio, è limare sui costi di consegna (e quindi sui compensi e le tutele di chi le consegne le fa) che oggi sono il vero tallone d’achille di questo business.

I platform workers sono i nuovi lavoratori a cottimo

La tendenza alla flessibilizzazione del lavoro, però, non riguarda solo il food delivery. I “platform workers” sono un fenomeno sempre più esteso ma non regolato. L’esempio principe è Amazon Mechanical Turk, la piattaforma con cui Amazon permette alle aziende di reclutare in unica soluzione anche migliaia di lavoratori per assegnare loro delle micro-mansioni ( dette micro-task). Dalla pulizia di un dataset, fino alla selezione di migliaia di immagini, gli ingaggi sono i più disparati. Più spesso questi plotoni di micro-workers sono assoldati per allenare i complessi sistemi di machine learning che, prima di automatizzare un servizio, devono essere istruiti da qualcuno. Non esiste rapporto umano tra chi ingaggia e l’ingaggiato e non si sa bene quali siano le condizioni di lavoro di chi si presta alle micro-task. «Il caso belga dimostra che l’azione di uno o più soggetti virtuosi non è sufficiente se non viene sostenuta da un ecosistema normativo adeguato – commenta Donato Nubile, presidente di Smart Italia -. In Italia il dibattito intorno ai platform workers è ancora fermo allo stabilire se si tratti di lavoratori autonomi o meno, e non va al cuore del problema: comunque li si definisca, si tratta di lavoratori senza tutele. E non bisogna dimenticare che accanto a questi lavoratori in divise dai colori accesi ce ne sono moltissimi che sfuggono alla nostra vista ma che affrontano gli stessi problemi: grafici, programmatori, videomaker, freelance di ogni settore, indipendentemente dal fatto che le loro occasioni di lavoro giungano o meno da una piattaforma. Un intervento normativo che si rivolga solo ai platform workers e si dimentichi questa crescente fetta del lavoro autonomo sarebbe miope e insufficiente». Anche per Casilli non può essere solo la cooperativa di turno a trovare soluzioni al problema. «In diversi paesi europei, il fatto che non ci fosse una cultura digitale presso i policy makers ha permesso a certi gruppi industriali e lobby di dettare legge sul lavoro digitale. Si tratta degli stessi gruppi che producono rapporti e white papers pronti ad essere copiati e incollati nei testi di legge», spiega.

Il ruolo del sindacato

Per evitare trappole, suggerisce Casilli, bisognerebbe chiamare in causa proprio i sindacati.«I sindacati tradizionali stanno facendo un lavoro enorme di recupero culturale per quanto riguarda il mondo del lavoro digitale. Smart è sicuramente una soluzione al problema delle tutele, ma i sindacati ora devono decidere se essere puri interlocutori sociali in grado di contrattare con queste aziende, piattaforme e realtà digitali oppure organizzazioni che forniscano anche servizi di assistenza e tutela diretta ai lavoratori». Qualunque sia la scelta, va fatta in fretta. Forse, più dei robot mangia-lavoro, bisogna correre ai ripari per evitare che le nuove tecnologie diventino la scusa contemporanea per tornare a una visione miope quanto antica: considerare le tutele un peso e non un investimento nella tenuta sociale dell’Europa così come ritenere la componente umana una voce di bilancio e non la molla dell’economia.

[Séminaire #ecnEHESS] L’idéologie du machine learning avec Bernie Hogan (Oxford), 4 déc. 2017, 17h

Enseignement ouvert aux auditeurs libres. Pour s’inscrire, merci de renseigner le formulaire.

Après une première séance riche et passionnante, notre séminaire EHESS Etudier les cultures du numérique revient avec un invité de marque. Le 4 décembre, nous aurons l’honneur d’accueillir Bernie Hogan, Senior Research Fellow du Oxford Internet Institute. Les travaux de Hogan portent sur comment les plateformes numériques gèrent l’identité et les données personnelles de leurs usagers, ainsi que sur les modalités de représentation des mondes sociaux à travers les réseaux. Par-delà ses articles publiés dans des revues savantes (Field Methods, Social Networks, New Media and Society) et ses interventions régulières dans les grands médias internationaux (BBC, Reuters, Times), il a participé au développement de plusieurs logiciels de visualisation de réseaux sociaux, dont le dernier en date est Network Canvas.

ATTENTION : Le séminaire aura lieu le lundi 4 décembre 2017, de 17 h à 20 h. Au vu du nombre important (et toujours croissant !) de participants, l’EHESS nous a accordé l’amphithéâtre François-Furet, au 105 bd Raspail 75006 Paris.


Title: Control, Privacy, Generativity: Big Data after the Ideology of Machine Learning

Speaker: Bernie Hogan (Oxford Internet Institute)

Abstract: This talk will unpack the three competing tensions for platforms in the age of big data. Users expect autonomy and privacy, platforms expect control and third parties expect privacy. It is not plausible to optimise for all three. Yet, in the absence of regulations for third parties and platforms, as well as public ignorance of important technical details, platforms will seek ever more control. The purpose of control is foster increasing strategies for predictability and monetization. What is lost when control is gained has been called “generativity” or the capacity to foster innovation and imagination through technology. Social network visualization will be presented as a case study in how both the user and third parties lose when we are left to view data solely through the eyes of the platform’s preferred interface.


La présentation et les débats se dérouleront en anglais.

[Séminaire #ecnEHESS] Antonio Casilli : Intelligences artificielles et travail des plateformes (13 nov. 2017)

Enseignement ouvert aux auditeurs libres. Pour s’inscrire, merci de renseigner le formulaire.

Pour la première séance de l’édition 2017/18 de notre séminaire #ecnEHESS Étudier les cultures du numérique : approches théoriques et empiriques, je vais présenter mes travaux récents sur le lien entre digital labor, plateformisation et intelligence artificielle.

Le séminaire aura lieu le lundi 13 novembre, de 17 h à 20 h (salle M. & D. Lombard, 96 bd Raspail 75006 Paris).

Des intelligences pas si artificielles : plateformes, digital labor et la « tentation d’automatiser »

L’un des penseurs classiques de l’industrialisme, David Ricardo, consacrait à la question de la « destruction du travail » par les machines le chapitre 31 de ses Principes de l’économie politique. À ses yeux, l’utilisation de solutions technologiques n’était pas un destin inéluctable, aboutissant à la substitution complète des travailleurs, mais plutôt un choix humain, résultant d’une « tentation d’employer des machines » [temptation to employ machinery] qui habitait le capitaliste. Était-ce un véritable aménagement libidinal qui poussait ce dernier à préférer l’automation à d’autres méthodes pour recruter de la main-d’œuvre meilleur marché, telle la délocalisation ou la mise au travail des familles des ouvriers ?

Cette présentation interroge le parcours culturel et socio-économique qui, de cette vision, nous a conduit aux sombres présages actuels du « grand remplacement » des humains par les technologies intelligentes. Le débat contemporain est marqué par les prophéties dystopiques de la disparition de 47% des emplois à cause des solutions automatisées, ou par les fantasmes de la gouvernance algorithmique du travail. Ceux-ci représentent autant de discours d’accompagnement de l’essor des plateformes numériques dont les modèles d’affaires sont de plus en plus structurés autour de l’automation des processus métier.

Bien que dans le contexte politique présent retentissent les annonces du dépassement des catégories héritées de la culture du travail des siècles passés (emploi, protection, subordination, pénibilité), l’heure d’une civilisation « post-laboriste » n’a pas encore sonné. Le fait est que les activités productives ont tellement évolué que le travail est en manque de reconnaissance. Pour le voir à nouveau, nous devons faire appel à la catégorie du digital labor, qui nous permet d’analyser l’articulation complexe de consommateurs/producteurs, de tâcherons du clic, de faux-freelances organisés en chaînes mondiales de sous-traitance. La centralité de la notion de travail est alors réaffirmée, à condition de jeter un regard derrière les rideaux de l’automation, pour observer le recours généralisé de la part des plateformes à des modalités intensives de captation de la valeur à partir des micro-tâches réalisées par des êtres humains afin de – justement – entraîner les intelligences artificielles, enseigner aux algorithmes d’apprentissage automatique, faire circuler les véhicules autonomes.

De quoi une plateforme (numérique) est-elle le nom ?

Est-ce que le mot “plateforme” est adapté pour décrire ce qui se passe dans l’économie numérique des dernières années ?

Point de départ : les travaux de Tarleton Gillespie, qui s’est penché (avant et mieux que d’autres) sur l’utilisation de la notion de plateforme pour qualifier les services contemporains d’appariement algorithmique d’informations, relations, biens et services.

Sa théorie peut être ainsi résumée : le mot plateforme est avant tout une métaphore qui désigne une structure technique, voire une “architecture” (c’est par ailleurs de ce dernier domaine que l’emprunt linguistique s’est fait). Le choix de ce terme pour désigner une entité technologique relève d’une volonté de concepteurs, innovateurs et investisseurs de se présenter comme des simples intermédiaires, et non pas comme des moteurs d’interaction sociale et de décision stratégique dans le domaine économique. La plateforme n’est qu’une charpente, sur laquelle d’autres (usagers, entreprises, institutions) construisent. (← c’est toujours Gillespie qui résume les arguments des proprios des plateformes, hein…).

Dans un texte de 2017, il met en avant trois raisons pour lesquelles cette notion se prête à des instrumentalisations particulièrement lourdes de conséquences d’un point de vue politique.

1) La prétendue horizontalité des plateformes numériques dissimule des structures hiérarchiques et les liens de subordination qui persistent malgré la rhétorique des “flat organizations” ;
2) L’insistance sur une structure abstraite cache la pluralité d’acteurs et la diversité/conflictualité des intérêts des différentes communautés d’utilisateurs. La responsabilité sociale des plateformes, leur “empreinte” sur les sociétés semble ainsi être effacée ;
3) (point #digitallabor) en se présentant comme des mécanismes *précis* et *autonomes*, les plateformes servent à occulter la quantité de travail nécessaire à leur fonctionnement et à leur entretien.

De manière presque paradoxale, la réquisitoire de Gillespie contre le mot plateforme représente un plaidoyer pour le maintien du terme—pourvu qu’on s’entende sur sa signification et sa généalogie. Publié en 2010, un autre de ses textes esquissait une étymologie du terme.

Plateforme comme :
1) fondations d’un bâtiment
2) structure sur-élevée d’une fortification militaire
3) podium où un orateur prononce un discours
4) par métonymie, le discours même–ou son agenda politique
5) Gillespie mentionne aussi une autre valence, de nature religieuse et politique, du terme plateforme. Aux Etat-Unis, cette dernière s’est déployée entre 1648, année de rédaction de la “Cambridge Platform” des premiers groupes de colons britanniques, et la moitié du XIXe siècle, époque à laquelle sont attestées les premières utilisations du mot au sens de programme politique d’un parti étasunien.

A mon avis, cette deuxième généalogie a davantage de poids : une plateforme est une entité politique, et non pas une simple métaphore–elle illustre les dimensions collectives et la nature consensuelle des négociations qui ont lieu dans son périmètre. Pour saisir cet aspect il faut regarder l’histoire européenne, où s’est opéré ce transfert du mot plateforme du contexte des arts appliqués à celui de l’idéologie religieuse et politique.

Le terme anglais “platform” (si nous laissons pour l’instant de côté ses origines latines) est une importation directe du français du moyen âge (“platte fourme”). Certes, le Online Etymology Dictionary atteste de cette utilisation à partir du XVIe siècle (“1540s, ‘plan of action, scheme, design'” [sources non précisées]). D’autres usages sont attestés. Par ex., dans la traduction anglaise de 1582 du De Proprietatibus Rerum de Bartholomaeus Anglicus (1240), “platform” est un terme géologique qui indique la Terre en tant que “soutien” des créatures – ou le monde comme modèle idéal de la création (“archetypus” dans l’original latin).

Quelques décennies plus tard, Sir Francis Bacon écrit son An Advertisement Touching a Holy War (1622), où il emploie le terme pour indiquer un repère pour développer son “mélange des considérations civiles et religieuses” (“mix’d of Religious and Civil considerations”). Le glissement sémantique vient de commencer. C’est à l’occasion de la Grande Rébellion anglaise de 1642-1660 que “platform” s’impose comme une conception politique et religieuse très particulière et comme un outil concret, dont l’usage n’est pas exclusivement métaphorique.

C’est là que la transition de simple métaphore à notion de théologie religieuse à part entière s’achève. Bien évidemment, il y a la Cambridge Platform de 1648 (document des églises congrégationalistes puritaines du New England cité supra 👆 ). Un autre document de ce type est la Savoy Declaration (1658) qui propose “a platform of Discipline” : articles de foi et règles de gouvernance des congrégations. Ces règles régissent les questions religieuses et imposent des pratiques (“Models & Platforms of [a given] subject”).

Mais le premier usage éminemment politique du terme pour signifier une vision de la société et le rôle des êtres humains vis-à-vis des autorités et d’eux-mêmes, est principalement développé par Gerrard Winstanley, le fondateur du mouvement des Bêcheux (les “Diggers”). Nous sommes en 1652, sous le protectorat d’Oliver Cromwell. Gerrard Winstanley écrit un texte fondateur de son mouvement proto-communiste : l’essai The Law of Freedom in a Platform [Bien évidemment “proto-communiste” comme on pouvait l’être en ce siècle : des appels à l’autorité divine et de la spiritualité à fond la caisse… En même temps, c’est là que le terme “platform” s’affranchit de son origine religieuse.]

Le texte de Winstanley pose quelques principes de base d’un programme politique (la plateforme proprement dite) adapté à une société d’individus libres :
– mise en commun des ressources productives,
– abolition de la propriété privée,
– abolition du travail salarié.

Le terme désigne désormais un pacte (“covenant”) entre une pluralité d’acteurs politiques qui négocient de manière collective l’accès à un ensemble de ressources et de prérogatives communes.

Cette nouvelle signification n’échappe pas à un commentateur contemporain, sir Winston Churchill (pas celui du “sang et des larmes” de 1940, mais celui qui publia en 1660 le Divi Britannici: Being a Remark Upon the Lives of all the Kings of this Isle). Il écrit, à propos de Charles II, que les révolutionnaires qui les mirent à mort étaient comme animés par l’intention de “erect a new Model of Polity by Commons only”). Pour ce faire, ils “set up a new Platform, that they call’d The Agreement of The People” (p. 356). La convention entre entités religieuses était désormais devenue un accord entre entités politiques.

Via les écrits Winstanley ou de Churchill, il est possible d’identifier une généalogie alternative à celle proposée par Gillespie—une généalogie plus précisément politique, ainsi qu’un autre usage du terme, qui cesse d’être une simple métaphore pour devenir un levier d’action. Au vu de ceci, la reprise capitaliste (par les plateformes numériques privées) et régalienne (par l’Etat-plateforme) de cette notion au début du XXIe siècle, est moins une imitation métaphorique qu’une récupération et un détournement de ces principes.

Les principes détournés :
1) la mise en commun (la “polity by Commons” de Churchill) se transforme en “partage” sur les plateformes de la soi-disant sharing economy ;
Les principes détournés :
2) l’abolition du travail salarié (la critique de Winstanley de la servitude par le “work in hard drudgery for day wages”) se transforme en précarisation de l’emploi et en glorification du “freelance” dans les plateformes d’intermédiation du travail ;
3) l’abolition de la propriété privée (le communisme agraire des diggers) se transforme en “ouverture” de certaines ressources productives (telles les données) dans les programmes de l’Etat-plateforme.

Bref, l’expression plateforme n’est pas une simple métaphore, mais une dégradation/évolution d’un concept du XVIIe siècle. En tant que telle, elle reste porteuse d’implications et prescriptions politiques implicites qu’il serait nuisible d’égarer—si on abandonnait la notion.