intelligences artificielles

[Séminaire #ecnEHESS] Antonio Casilli : Intelligences artificielles et travail des plateformes (13 nov. 2017)

Enseignement ouvert aux auditeurs libres. Pour s’inscrire, merci de renseigner le formulaire.

Pour la première séance de l’édition 2017/18 de notre séminaire #ecnEHESS Étudier les cultures du numérique : approches théoriques et empiriques, je vais présenter mes travaux récents sur le lien entre digital labor, plateformisation et intelligence artificielle.

Le séminaire aura lieu le lundi 13 novembre, de 17 h à 20 h (salle M. & D. Lombard, 96 bd Raspail 75006 Paris).

Des intelligences pas si artificielles : plateformes, digital labor et la « tentation d’automatiser »

L’un des penseurs classiques de l’industrialisme, David Ricardo, consacrait à la question de la « destruction du travail » par les machines le chapitre 31 de ses Principes de l’économie politique. À ses yeux, l’utilisation de solutions technologiques n’était pas un destin inéluctable, aboutissant à la substitution complète des travailleurs, mais plutôt un choix humain, résultant d’une « tentation d’employer des machines » [temptation to employ machinery] qui habitait le capitaliste. Était-ce un véritable aménagement libidinal qui poussait ce dernier à préférer l’automation à d’autres méthodes pour recruter de la main-d’œuvre meilleur marché, telle la délocalisation ou la mise au travail des familles des ouvriers ?

Cette présentation interroge le parcours culturel et socio-économique qui, de cette vision, nous a conduit aux sombres présages actuels du « grand remplacement » des humains par les technologies intelligentes. Le débat contemporain est marqué par les prophéties dystopiques de la disparition de 47% des emplois à cause des solutions automatisées, ou par les fantasmes de la gouvernance algorithmique du travail. Ceux-ci représentent autant de discours d’accompagnement de l’essor des plateformes numériques dont les modèles d’affaires sont de plus en plus structurés autour de l’automation des processus métier.

Bien que dans le contexte politique présent retentissent les annonces du dépassement des catégories héritées de la culture du travail des siècles passés (emploi, protection, subordination, pénibilité), l’heure d’une civilisation « post-laboriste » n’a pas encore sonné. Le fait est que les activités productives ont tellement évolué que le travail est en manque de reconnaissance. Pour le voir à nouveau, nous devons faire appel à la catégorie du digital labor, qui nous permet d’analyser l’articulation complexe de consommateurs/producteurs, de tâcherons du clic, de faux-freelances organisés en chaînes mondiales de sous-traitance. La centralité de la notion de travail est alors réaffirmée, à condition de jeter un regard derrière les rideaux de l’automation, pour observer le recours généralisé de la part des plateformes à des modalités intensives de captation de la valeur à partir des micro-tâches réalisées par des êtres humains afin de – justement – entraîner les intelligences artificielles, enseigner aux algorithmes d’apprentissage automatique, faire circuler les véhicules autonomes.

[Video] Micro-lavoratori, sindacati e intelligenze artificiali (Lecce, Italia, 17 sett. 2017)

Il 17 settembre 2017, ho presentato una lectio magistralis nel contesto delle Giornate del Lavoro della CGIL (Lecce, Italia).  Il ruolo dei lavoratori nella creazione delle intelligenze artificiali, le trasformazioni del sindacato e gli equilibri economici globali sono stati discussi in presenza di un nutrito pubblico di delegati sindacali e di cittadini del capoluogo salentino. Il tutto è stato seguito e commentato in diretta dalla radio Articolo 1, che ha prodotto un podcast.

(La lectio comincia a 12’55”)

Pagina99 (Italie, 16 juin 2017)

Nel quotidiano Pagina99, numero speciale del weekend 17 giugno 2017 “algoritmi e sorveglianza”, una lunga intervista rilasciata al giornalista Samuele Cafasso.

I nuovi schiavi degli algoritmi

Per costruire le macchine al servizio dell’uomo, i grandi gruppi del digitale impiegano una moltitudine di persone. Spesso in condizioni definibili come sfruttamento. L’intervista di pagina99 al sociologo Casilli.

  • SAMUELE CAFASSO

Prima di chiederci se l’intelligenza artificiale e i robot ci toglieranno il lavoro, dovremmo chiederci quanto e quale lavoro serve per costruire le intelligenze artificiali. Scopriremmo così un grande paradosso: per costruire le macchine al servizio dell’uomo, i grandi gruppi del digitale stanno usando una moltitudine di persone a servizio delle macchine, spesso facendole lavorare in condizioni definibili come sfruttamento. La tesi è di Antonio Casilli, professore associato al Paris Institute of Technology e ricercatore al Centro Edgar Morin, tra i più acuti studiosi europei dell’impatto delle tecnologie digitali sulle nostre strutture sociali. L’abbiamo intervistato in occasione del Jobless society forum organizzato a Milano dalla Fondazione Feltrinelli.

D. Casilli, di quale intelligenza artificiale stiamo parlando e perché, per essere realizzata, questa richiede lo sfruttamento dell’uomo?
R. I grandi gruppi digitali come Google, o Facebook, hanno la loro ragione d’essere nel costituirsi come piattaforme di servizi per i propri utenti. Sono anche un riferimento per le altre imprese, di cui inglobano e coordinano le attività. Per svolgere il loro compito ricorrono sempre più spesso a sistemi automatici di funzionamento. In pratica si tratta di software costruiti grazie al machine learning, sistemi di apprendimento automatico: ogni dato inserito permette alla macchina di raffinare il proprio funzionamento, di specializzarsi riducendo gli errori. Serve però una mole enorme di dati, e di buona qualità. Questi dati sono prodotti e raffinati da noi, esseri umani.

D. È il sistema che sta alla base dei traduttori online, o dei “risponditori” automatici come Siri, o Cortana. Ma per il machine learning non basta il lavoro non retribuito che eseguiamo noi come utenti attraverso la nostra navigazione, l’uso dei dispositivi, i like che inseriamo sui social network e altro ancora?
R. Questa raccolta di dati è importantissima. I big data a disposizione di Facebook con i suoi 1,8 miliardi di profili, o le centinaia di milioni di clienti di Amazon, sono alla base del processo di machine learning. Ma le grandi piattaforme, lo sappiamo per certo, non si limitano a raccogliere i dati in maniera passiva. Questi dati vanno rielaborati, sistematizzati, annotati. C’è troppo “rumore” perché siano utilizzabili così come sono. E qui entra in gioco il microlavoro umano.

D. Di quali compiti stiamo parlando, in concreto?
R. Stiamo parlando di compiti che, presi singolarmente, sono minimi. Facciamo qualche esempio: selezionare, tra otto foto che compaiono sullo schermo, quelle in cui compare un determinato elemento, ad esempio un lago o l’insegna di un negozio. Individuare in qualche secondo se un sito è “solo per adulti”. Correggere lo spelling nella trascrizione di testi, brevissimi, di appena qualche parola. E altro ancora. Microcompiti che vengono spesso appaltati attraverso le piattaforme di micro-lavoro per qualche centesimo l’una, a volte anche meno.

D. Quali aziende sono coinvolte?
R. Ogni grande gruppo può contare su piattaforme a questo in qualche modo collegate. La più nota di tutte è Mechanical Turk di Amazon, il cui nome già dice tutto. Il “turco meccanico” è il nome di un robot giocatore di scacchi sviluppato alla fine del 1700. Vestito appunto come un turco, in realtà celava al suo interno una persona. Il robot, insomma, si muoveva solo grazie all’uomo. Google utilizza una piattaforma che si chiama Ewoq, Microsoft ha Uhrs, Ibm ricorre a Mighty Ai, Apple utilizza per la geolocalizzazione Try Rating. E poi ci sono tante piattaforme di microlavoro generaliste.

D. Chi si fa carico di questi lavori?
R. Se guardiamo al mercato dei click, vediamo che i primi utilizzatori si trovano negli Stati Uniti, in Paesi europei come la Francia, o la Gran Bretagna, in Canada, Australia. Lì si concentrano le imprese che reclutano microlavoratori per allenare le intelligenze artificiali. Chi vende prestazioni invece si trova soprattutto in India, Pakistan, Filippine, Malesia, America Centrale. Spesso si tratta di persone che lavorano da casa, ma ci sono realtà molto più dure. Alcuni operano negli equivalenti digitali dei call center, in grandi stanze ingombre di computer, una a fianco all’altra, in condizioni precarie. Sono le click-farm, di cui si parla oramai da anni. Lo schema che aveva notato Naomi Klein alla fine degli anni Novanta con il libro No Logo, per cui la globalizzazione e la delocalizzazione delle imprese tendeva a riprodurre schemi di potere di tipo colonialista, oggi si ripropone. Questa volta a essere mobili non sono i capitali e la produzione delle merci, ma il mercato del lavoro. Anche quando queste persone si trovano nei Paesi occidentali, nel Nord globale, sono persone spesso ai margini. Il microlavoro ha tendenza a riprodurre forme di esclusione classiche. Le donne sono particolarmente toccate, o i portatori di handicap. In alcuni casi, forme di precarietà più estreme fanno di questa forza lavoro un vero e proprio “esercito industriale di riserva” composto di ex-detenuti, persone senza domicilio fisso, lavoratori recentemente immigrati con secoli di storia di sfruttamento alle loro spalle. Alcune piattaforme (diverse da quelle citate qui sopra e non direttamente riferibili ai grandi gruppi del digitale, ndr.) come Mobileworks si fanno un vanto di impiegare «comunità di sotto-occupati negli Stati Uniti e nel mondo». I programmi di lavoro nelle carceri americane oggi includono compiti come data entry, trascrizioni di testi, preparazione di documenti. Anche quando gli utenti di queste piattaforme sono formalmente liberi, alcune imprese (come Microsourcing nelle Filippine) mimano il linguaggio delle colonie penali, promettendo alle imprese occidentali che i loro microlavori saranno eseguiti da persone «virtualmente in cattività».

D. Quali responsabilità abbiamo come utenti delle piattaforme e come cittadini?
R.
Se pensiamo che i nostri comportamenti individuali possano in qualche modo influire su queste dinamiche facciamo un errore enorme. Non possiamo separare i mercati di lavoro tradizionali, presenziali, da quelli delle piattaforme di microlavoro. I conflitti e le tensioni tra lavoratori scatenati dalle delocalizzazioni e dalla mobilità internazionale di imprese e individui si riproducono online. Questo è un problema globale che richiede risposte globali. È il legislatore, nazionale e sovranazionale, che deve assecondare i movimenti di auto-organizzazione di lavoratori per riaffermare i loro diritti. Un ruolo importante possono averlo anche i sindacati tradizionali. Anche se qui in Europa hanno reputazione di essere in ritardo rispetto a queste evoluzioni tecnologiche, sono loro che conservano infrastrutture, saperi forti su come gestire il conflitto e il dialogo sociale, radici tra i lavoratori e capacità di rapportarsi con le aziende e il legislatore. Alcune realtà si stanno muovendo in questo senso, come la Cgt o Force Ouvrière in Francia, la Cgil in Italia, Ig Metall in Germania con il progetto Fair Crowd Work che permette di mettere in rete le esperienze dei lavoratori. È necessario che ci si muova in questa direzione».

Questo articolo è tratto dal nuovo numero di pagina99, “dalla Cina a Facebook – prove di controllo totale”, in edicola, digitale e abbonamento dal 16 al 22 giugno 2017.