Monthly Archives: September 2014

Trolling, ironie et la "double victimisation" (La Repubblica, 07 Sept. 2014)

Dans le quotidien italien La Repubblica, le journaliste Fabio Chiusi interviewe le sociologue Antonio Casilli à propos du phénomène du trolling.

Prendetela con ironia È l’arma perfetta per difendersi dai troll

QUANDO lo scorso ottobre è stato assalito dai troll, i disturbatori da tastiera che sabotano conversazioni online a suon di insulti e argomenti fuori tema per il loro solo godimento, il cantautore James Blunt ha trovato un’arma più efficace rispetto a maledire il web: usare un pizzico di sana ironia. «Gesù, un nuovo disco di James Blunt, c’è qualcosa d’altro che potrebbe andare peggio?», si leggeva su Twitter. «Sì, potrebbe cominciare a twittarti », la risposta, azzeccatissima. Blunt, oltre a farsi pubblicità per il nuovo disco, ha fornito al mondo un esempio di come convivere con un fenomeno nato insieme a Internet, quasi certamente ineliminabile e che in ogni caso non si potrà cancellare senza rendere la Rete «un ambiente più ostile per coloro che la usano per ridurre l’odio e aumentare la comprensione», scrivono Rebecca MacKinnon ed Ethan Zuckerman. Meglio, insomma, imparare strategie adeguate per depotenziare le tattiche dei provocatori, “trollarli” a nostra volta. Un buon punto di partenza è riconoscere la complessità della questione, e liberarsi di alcuni falsi miti.

Il primo è l’idea che il problema sia l’anonimato in Rete. Un concetto derivato dagli studi, fin da metà degli anni Novanta, dello psicologo John Suler e del suo “effetto disinibizione online”, secondo cui sarebbe l’assenza di limiti percepiti – e forniti dai segnali non verbali delle comunicazioni faccia a faccia – a incentivare provocazioni e molestie.

«Gli psicologi stessi devono ancora dimostrarne il fondamento scientifico», dice Antonio Casilli, docente di Digital Humanities a Parigi e al lavoro su un volume sulla politica del trolling. Del resto, su Facebook siamo con nome e cognome, ma i troll impazzano. Il secondo è l’idea, avanzata da un recente saggio accademico, per cui siano soggetti sadici e narcisisti. Falso, risponde Casilli: quello studio contiene «fortissime distorsioni metodologiche »; e anche se non le avesse, «dare del sadico a un troll può finire per rinforzarne il comportamento ». E infatti diverse guide su come affrontarli predicano al contrario di «ucciderli con la gentilezza».

Il programmatore Shlomi Fish ha adattato a Internet le prescrizioni contenute in un saggio di terapia cognitiva del 2008, Feeling Good: The New Mood Therapy . I capisaldi? Rispondere evitando fallacie logiche, comunicare chiaramente e senza andare sul personale, non prendere in giro. Una tattica tuttavia controversa, che potrebbe confondere trolling ed espressione del dissenso. Altri hanno deciso di affrontare il proprio troll faccia a faccia. Il presentatore televisivo Noel Edmonds l’ha fatto con uno che aveva aperto una pagina Facebook che incitava alla sua uccisione, e il risultato sono state scuse e una stretta di mano. Certo, non sempre è possibile scherzarci sopra o giungere a una riconciliazione: chiedere a Zelda Williams, aggredita su Twitter nei giorni della morte del padre, l’attore Robin, o alle famiglie delle ragazze portate al suicidio anche dagli insulti online. Ma un recente articolo del New York Times a firma Stephanie Rosenbloom spiega che impiegare strategie di contenimento del messaggio dei molestatori è comunque utile. Può significare allontanarsi momentaneamente dalla tastiera, per non rispondere a caldo e alimentare così la spirale distruttiva; leggere gli insulti a voce alta o alterandola in modi buffi; addirittura sfruttarli per ricordare a se stessi che si è l’opposto di ciò che è scritto e che ferisce, o per chiedersi se a ferire non sia anche una qualche dose di verità nascosta tra le asperità e le insensatezze degli attacchi ricevuti.

Serve tuttavia anche una guida alle guide anti-troll. Casilli ne sta stilando una lista e, osservandola, vi ha trovato una costante: «in quasi tutte le strategie passate in rassegna, la responsabilità ricade sulla vittima. E anche il pezzo del New York Times inizia con l’invito a essere forti, avere la pelle dura». Un’idea, prosegue, «legata a una cultura machista, anti-intellettualistica » (quella del contesto sportivo, da cui proviene) che finisce per vittimizzare la vittima due volte: «la prima, dal troll; la seconda da chi le sta accanto e dice “se ti fai ferire è perché hai una tua debolezza”».

«Non c’è una strategia a prova di errore per evitare del tutto persone sgradevoli online», conferma Andrea Weckerle, autrice del volume Civility in the Digital Age . Tuttavia «disporre di una forte rete di supporto che contribuisca a mitigare i danni è essenziale». «Anche lasciare una impronta positiva online è importante», aggiunge, «e di aiuto nel diluire le informazioni negative diffuse dai troll sul proprio conto». Vale a dire: porsi in modo dialogante, essere presenti in Rete mostrando le proprie qualità umane e dialogiche, è essenziale per impedire che l’odio diventi virale.

Dans L'Express (5 septembre 2014)

Dans la rubrique Chercheurs d’Actu (L’Express), le journaliste Olivier Monod publie une interview avec le sociologue Antonio Casilli à propos de vie privée, internet et le scandale des photos volées de Jennifer Lawrence.

La vie privée n’est pas morte, elle est devenue collective

Propos recueillis par Olivier Monod, publié le

Paramètres Facebook qui changent, photos de stars piratées sur iCloud… la notion de vie privée serait mise à mal par Internet. Faux, répond le sociologue Antonio Casilli. Interview. 

La vie privée n'est pas morte, elle est devenue collective

Le concept de fin de la vie privée est un concept défendu par ceux qui y ont intérêt, selon le chercheur Antonio Casilli.

Flickr/opensourceway

 

Plusieurs stars ont récemment vu leurs photos personnelles exposées sur la Toile. La vie privée existe-t-elle encore sur Internet?

Oui. Et ceux qui disent le contraire le font pour des raisons idéologiques et mercantiles. Dans l’affaire récente des photos de Jennifer Lawrence, certains ont rendu coupable l’actrice elle-même d’avoir pris ces photos. C’est grave. On accuse l’utilisateur alors qu’en l’occurrence, le fautif, c’est Apple. Les utilisateurs des applications cloud n’ont pas forcément les moyens de savoir quels contenus sont mis en ligne et lesquels ne le sont pas. Il y a un déséquilibre informatif qui exproprie l’utilisateur de ses propres contenus.

Sur Internet, les utilisateurs sont dépossédés de leurs données… aux dépends de leur vie privée.

Cette notion de la fin de la vie privée est défendue par les dirigeants de Facebook, Google, qui ont surtout à coeur leurs intérêts économiques. Les utilisateurs, eux, se défendent. Ceux de Facebook passent beaucoup de temps à gérer leurs paramètres de confidentialité. D’autres créent plusieurs comptes sur des réseaux différents pour gérer divers aspects de leur vie familiale, professionnelle, amoureuse… Tout le monde connaît une personne possédant deux comptes Facebook, un personnel et un professionnel.

Ce sont des stratégies individuelles face à des multinationales. Le combat n’est-il pas déséquilibré?

Bien au contraire, la vie privée est devenue un enjeu collectif. Il s’agit d’une négociation permanente entre les pouvoirs publics, les associations de consommateurs et les géants du numérique. L’histoire de Facebook est jalonnée de conflits sur ce thème, que ce soit contre des associations ou des institutions étatiques.

Quand Marck Zuckerberg dit “public is the new social norm” (“la transparence est la nouvelle norme sociale”, ndlr), il essaie de créer une nouvelle injonction sociale qui arrangerait bien ses affaires, mais qui ne correspond pas à la réalité. Dans les faits, il est en négociation permanente avec des groupes issus de la société civile qui refusent ses incursions dans la vie privée. Le secteur numérique tire profit de la vente des données personnelles récoltées. C’est pourquoi certains chercheurs et activistes demandent que les internautes soient désormais rémunérés, symboliquement, pour les données qu’ils mettent à disposition et la valeur qu’ils créent ainsi. C’est une idée intéressante, non?

Antonio Casilli invité du Festivaletteratura (Mantoue, Italie, 4 septembre 2014)

Le Festivaletteratura de Mantoue, l’une des plus prestigieuses kermesses littéraires d’Italie, a accueilli le 4 septembre 2014 le sociologue Antonio Casilli pour un débat autour de Fraternité et lien social à l’heure d’Internet. Animée par le philosophe Roberto Casati, la rencontre a eu lieu à l’Archivio di Stato, devant une assistance nourrie.  Des comptes rendus sont disponibles sur le site web du Festivaletteratura ainsi que sur les blogs POOL et Art a part of cult(ure).

Antonio Casilli e la nuova concezione di amicizia sul web

Source : Festivaletteratura, 05/09/2014

Image : le philosophe Roberto Casati (gauche) et le sociologue Antonio Casilli (droite).

Antonio Casilli, professore associato di Digital Humanities presso il Telecom ParisTech e ricercatore in Sociologia presso il Centro Edgar Morin, ha tenuto il secondo incontro sulla rivoluzione digitale. Dopo l’appuntamento di giovedì con Juan Carlos De Martin, incentrato sulla privacy, quello di ieri riprendendo proprio dal medesimo tema si è poi concentrato sulle relazioni sociali.

Partendo da cosa condividiamo, ha aperto con il caso di Jeff Jarvis, giornalista, che sul suo blog nel 2009 condivise con i lettori i progressi del suo tumore alla prostata. La domanda che Casilli si è posto è la seguente:«Se la condizione sociale di Jarvis (bianco, benestante, conosciuto) fosse stata diversa il post avrebbe ottenuto lo stesso effetto?». Siamo quello che condividiamo, o sono le nostre reti e relazioni sociali a determinarlo? O meglio, sono gli algoritmi alla fine di tutto a decidere per noi? Probabilmente in buona parte si.

Casilli ha poi spiegato come su Facebook si usi la nozione di amicizia non come l’abbiamo imparata tra i banchi di scuola, ma per definire quello che banalmente non è altro che due profili connessi. L’utilizzo della metafora amicizia, da ben prima di Facebook (si pensi a MySpace) è un’astuzia usata da chi crea le piattaforme di social networking. Ma e i nostri amici sui social? Qui bisogna dividere in due categorie: relazioni forti e relazioni deboli. Le prime sono le persone che magari conosciamo bene, di persona. Amici, colleghi, famigliari. Le seconde possono essere ad esempio persone con cui siamo entrati in contatto in rete, a volte perfetti sconosciuti. Le prime però quasi per paradosso posso essere limitanti, in quanto ben conosciute e dunque potenzialmente prive di stimoli, mentre i legami deboli potrebbero rivelarsi una sorta di prolunga cognitiva che può risultare stimolante. Certo, c’è da sottolineare che i perfetti sconosciuti, come dice Casilli, potrebbero non essere così perfetti. Tendiamo però a tenerli comunque nelle nostre cerchie e a sviluppare modi per mantenerli. Questo barcamenarsi aiuta a sviluppare un apprendimento di codici ed etichette totalmente diverse da quelle apprese da giovani nella vita reale. Ma in mezzo a tutto questo ci sono gli algoritmi, che Casilli ha definito come una sorta di ricetta che ti dice che ingredienti prendere per creare un determinato piatto. Perfetto per te. Casilli ha poi spiegato come gli algoritmi, che incidono fortemente sulla creazione delle nostre reti sociali, non sono creati tanto per farci stare meglio, ma piuttosto per farci restare collegati più a lungo e dunque carpire ancor più dati e abitudini, che come diceva ieri Juan Carlos De Martin sono oro per le aziende, e massimizzare i profitti. Si ritorna dunque all’inizio, alla privacy e a casi come quelli che hanno visto coinvolta l’NSA e che ha messo in allarme anche i grandi big del web, inconsapevoli, a loro dire, che il governo USA prendesse illegalmente più dati di quelli che già venivano forniti lecitamente.

 

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Image : Roberto Casati et Antonio Casilli avec les bénévoles du Festivaletteratura, dans un tableau vivant de ‘La Liberté guidant le peuple’ d’Eugène Delacroix.

L’ALGORITMO CONQUISTATORE
FOCUS SUL DIGITALE AL FESTIVALETTERATURA DI MANTOVA

Source: POOL Magazine, 05/09/2014

Ogni mutazione genera l’estremizzazione, la polarizzazione dei favorevoli e dei contrari: nulla di nuovo. Nel campo dell’innovazione digitale, il filosofo Roberto Casati individua gli ‘instant guru’, che inneggiano alla smaterializzazione, e gli ‘integralisti della penna’, che non solo si oppongono alle nuove tecnologie, ma sono financo contrari alla scrittura per mezzo di tastiera, e reputano la sola penna degna di veicolare i pensieri.
Che si tratti di inutili irrigidimenti è evidente, ma ciò che conta maggiormente non è stabilire dove sia la ragione, quanto analizzare le conseguenze sociologiche delle innovazioni e tracciare dei modelli di comportamento in grado di renderci parte consapevole di un processo di mutazione, e non cavie di esperimenti algoritmici.

In un tris di incontri al Festivaletteratura di Mantova, Roberto Casati ha scelto di analizzare gli aspetti dell’attualità tecnologica gettando un ponte ideale verso un’altra grande Rivoluzione: quella francese. Sotto le etichette di ‘Liberté’, ‘Egualité’ e ‘Fraternité’, con tre interlocutori in vario modo esperti del mondo digitale, Casati ha fatto il punto su alcune delle modifiche culturali a cui siamo soggetti, e di cui siamo soliti discutere pur senza avere dati precisi.

Per l’appuntamento ‘Fraternité’ è intervenuto, assieme al filosofo, Antonio Casilli (docente di Digital Humanities a Parigi e ricercatore di Sociologia).
Se si analizza la fraternité come maggiore vicinanza sociale e democratizzazione diffusa, occorre subito porre sul piatto la questione della privacy, e Casilli lo fa citando Mark Zuckenberg e Jeff Jarvis, entrambi strenui sostenitori della bontà della diffusione delle informazioni e di una maggiore apertura della Rete.

Lungi dal demonizzare l’amicizia intrecciata su Facebook, Casilli ne traccia alcune caratteristiche: si tratta di una relazione performativa e dichiarativa, perché impone lo svolgimento di azioni e la continua conferma (attraverso i like e i tag, per esempio); è una forma di contatto contrattualizzata, perché segue un formulario che prevede richiesta e accettazione; si articola con mutui favori (come il grooming per il mondo animale, osserva Casilli, per cui i reciproci apprezzamenti pubblici si configurano come lo spulciamento per i primati: un servizio utile e che limita l’aggressività).

Ma se un apprendimento sociale delle nuove forme di interazione appare quasi come una pacifica prospettiva di rinnovamento, Casilli e Casati evidenziano i rischi delle nostre vite digitali: sappiamo già che le nostre informazioni sono stoccate in maniera permanente e che non possiamo cancellarle neanche disattivando i nostri profili social; sappiamo inoltre – almeno intuitivamente – che esistono degli algoritmi al lavoro nell’analisi delle nostre scelte, ma comprendere fino in fondo la portata di queste informazioni è tutt’altra cosa. La massiccia e continua raccolta di dati prelude non solo alla proposta di contenuti omologati (per cui ci vengono fornite informazioni che confermano quanto già sappiamo e crediamo), ma anche alla preclusione dell’accesso a determinati contenuti: chi è in possesso dell’algoritmo può scegliere di oscurare sulle nostre bacheche determinate notizie (Facebook lo fa, mentre al momento Twitter funziona diversamente, e consente una proposta di contenuti meno filtrata).

Fornire dati falsi inserisce nel sistema di raccolta delle informazioni degli elementi disturbanti: per questo si moltiplicano gli appelli all’onestà («Don’t Be Evil», ammoniva Google). Ma per Casati si tratta di una richiesta simile a quella degli alieni conquistatori di Mars Attacks!: «Non scappate! Siamo amici!».

a cura di Carlotta Susca

Vidéo : interviews avec Antonio Casilli, Juan Carlos de Martin, Marina Petrillo. Réalisées par Matteo Castellani Tarabini.

Festival della Letteratura #2. L’amicalità social e la ricetta per difendere la privacy

Source : Art a part of cult(ure), Cecilia Deni, 06/09/2014

Uno dei temi che percorrono le giornate mantovane del Festival della letteratura è la riflessione sulla rete. A strillarla le tre parole del motto della rivoluzione francese: liberté, egalité, fraternité: scelta suggestiva della caratteristica rivoluzionaria del fenomeno, la cui portata in parte ci sfugge proprio perché vi siamo immersi. Il secondo incontro, intitolato Fraternité, si tiene nel pomeriggio di giovedì ed è condotto da Roberto Casati che intervista Antonio Casilli, sociologo e docente al Paris Tech, sul tema della “amicizia” ai tempi di Facebook e dei social network.

Molti e interessanti gli spunti che ci vengono offerti. L’amicizia classica ha tre pilastri: è un rapporto privato, disinteressato e basato sull’incontro di due anime simili. L’amicalità sui social è pubblica, anzi dichiarativa: quasi un matrimonio, dice Casilli, con tanto di partecipazioni: Pinco e Pallino hanno fatto amicizia. Non è disinteressata: riceviamo da essa qualcosa e qualcosa offriamo, sia pure informazioni e piccoli pezzi di noi stessi e della nostra vita. Anche l’incontro di due anime dobbiamo mettere da parte: il sociologo ci fa riflettere su quante amicizie stringiamo con persone che non ci piacciono, per i motivi più diversi. Potremmo infatti rifiutarla al nostro capufficio, per quanto odiato, o al consuocero antipatico e magari razzista? E tuttavia questa amicalità ha le sue regole e la sua etichetta complessa e sofisticata a cui ci adattiamo inconsapevolmente.

Il secondo tema di riflessione è sugli algoritmi che governano la scelta delle notizie che ci vengono proposte. Gli algoritmi sono le “ricette”, ovvero la serie di istruzioni, che “cucinano” il nostro pasto di informazioni quotidiano sui social. Da algoritmi piatti, come quello di twitter, che ci permettono di trovare tutto tramite l’hashtag, si passa ad algoritmi complessi come in Facebook, che ci offrono le notizie e le persone che noi preferiamo, guidati dai nostri like e dal profilo dei nostri contatti. Questo ci chiude in una “bolla informazionale” che contiene solo la parte di mondo che ci è gradita e i punti di vista che condividiamo. Infine Casilli ci offre gli spunti più inquietanti: chi compra i nostri profili e che uso ne farà?
Non solo le aziende sono interessate a noi per venderci i loro prodotti, ma gli Stati e le loro Agenzie di informazione si affacciano prepotentemente alla tavola imbandita con le notizie ricavate dall’incrocio tra i nostri profili sui vari social e, di fronte al costo elevato di essi, semplicemente li rubano.

Difendere la nostra privacy? E’ possibile solo da oggi in avanti, a patto che abbandoniamo il network: tutte le notizie che abbiamo immesso in Facebook sono conservate e “backuppate” più volte. Inoltre gli “imprenditori di morale”, ovvero coloro che cercano di imporre il proprio punto di vista facendolo diventare una regola per tutti, lavorano per convincerci che la privacy è solo la pretesa di chi ha qualcosa da nascondere e che affacciarsi al network sotto falso nome è moralmente riprovevole. La soluzione? Avere invece molti profili, dice Casilli: uno per il lavoro, uno per la famiglia, uno per l’amante e uno, dissacrante, per “trollare”!

Vie privée et biens communs : quelle gouvernance ? (blog S.I.Lex, 1 sept. 2014)

A l’occasion de la parution de l’étude annuelle du Conseil d’Etat (consacré aux Technologies numériques, libertés et droits fondamentaux) et de la présentation en ligne de la version preprint de la contribution du sociologue Antonio Casilli à l’étude (Quatre thèses sur la surveillance numérique de masse et la négociation de la vie privée), le juriste, bibliothécaire et blogueur Lionel Maurel (Calimaq) produit une analyse passionnante des liens entre privacy et biens communs .

Une gouvernance en communs des données personnelles est-elle possible ?

La semaine dernière, le chercheur Antonio Casilli a publié sur son blog un document intitulé “Quatre thèses sur surveillance de masse et vie privée”, destiné à alimenter des travaux que le Conseil d’Etat mène en ce moment en vue de la réalisation d’une étude sur le thème “Technologies numériques et libertés et droits fondamentaux”, à paraître à la rentrée.

Par Nemo. CC0. Source : Pixabay.

Chacune de ces quatre thèses est particulièrement intéressante par l’éclairage qu’elle apporte, mais c’est surtout la quatrième qui a retenu mon attention : “La vie privée a cessé d’être un droit individuel pour devenir une négociation collective“. Elle fait écho en effet à plusieurs tentatives opérées depuis le début de l’année pour essayer de penser la question des données personnelles à travers le prisme des biens communs, que l’on retrouve par exemple chez Valérie Peugeot ou Silvère Mercier. J’ai de mon côté également essayé de me joindre à ce débat, en mettant en lumière la nécessité de sortir du paradigme individualiste à propos des données personnelles.

La vie privée comme négociation collective

Antonio Casilli ne se réfère pas dans son texte à la notion de biens communs, mais il arrive remarquablement à mettre en lumière la dimension collective à l’oeuvre dans notre façon de nous comporter à propos de ces données au quotidien. Cette caractéristique de notre relation aux données personnelles est pour l’instant laissée de côté par le droit, qui en concevant le droit à la vie privée uniquement comme un droit individuel, reste aveugle aux phénomènes collectifs. Antonio Casilli montre bien en quoi cette approche “personnaliste” est aujourd’hui insuffisante pour rendre compte de ce qui se passe dans ce champ et propose de passer d’une “privacy as penetration” (un “droit du particulier à être laissé tranquille”) à une “privacy as negociation” :

La privacy en tant que droit individuel, pour autant qu’elle incarne une attitude normative, représente une situation idéale, difficilement reconnaissable dans la vie courante […]

Avec l’éclosion du Web, les acteurs sociaux sont davantage mis en condition de déployer une volonté stratégique de créer et entretenir leurs espaces d’autonomie. Dans ce nouveau paradigme, la  privacy n’est pas une prérogative individuelle, mais une négociation collective. Elle résulte d’un aménagement relationnel, qui prend en compte des éléments intersubjectifs et se modèle selon les impulsions venant des personnes avec lesquelles un individu interagit. La spécificité de la vie privée dans le web social et des relations équipées par les technologies mobiles est un processus décentralisé, complexe et multidirectionnel […]

Parce qu’elle est basée sur la recherche d’un accord entre plusieurs parties, plus que sur une régulation émanant d’une seule d’entre elles, cette vision de la vie privée est assimilable à une négociation collective.

Du collectif aux biens communs

En mettant l’accent sur cette dimension collective de la régulation opérant en matière de vie privée, Antonio Casilli donne à mon sens un outil très précieux à ceux qui cherchent à penser la relation entre données personnelles et biens communs. Jusqu’à présent en effet, notre réflexe a été de partir du terrain juridique, pour essayer d’imaginer de nouvelles règles, permettant à l’image de ce qui s’est produit pour le logiciel libre, d’instaurer une possibilité maîtrisée d’organiser la mise en partage des données personnelles tout en les rendant inappropriables. C’est par exemple ce que Silvère Mercier a esquissé à partir de la notion de “faisceau de droits” (bundle of rights) et l’idée de créer des Privacy Commons, comme il existe pour les oeuvres des Creative Commons :

Ni privé, ni public comment penser des données personnelles en biens communs? Car c’est une piste peu étudiée : celle de faire de ces fameuses données personnelles des biens communs, quelque chose qui appartient à tous et à personne. Ne pas les sanctuariser par la loi, ni les commercialiser sans vergogne mais bien de repenser autour de leurs usages un faisceau de droits. Il ne s’agit pas de refuser de leur appliquer un régime de propriété mais d’en repenser la nature. Et s’il fallait inventer des creative commons des données personnelles, des privacy commons? Reste à définir une gouvernance partagée de cette ressource commune. La question est effroyablement complexe et je ne prétends bien sûr pas la résoudre ici…

Une représentation des données personnelles, typique de l’influence du paradigme individualiste, qui “gomme” la dimension collective à l’oeuvre en matière de vie privée.

J’ai moi-même essayé de montrer à la suite que le droit des données personnelles, tel qu’il est formulé actuellement dans la loi, permettrait sans doute d’instaurer de telles licences pour la gestion des données personnelles, en faisant référence à des travaux précédents imaginant la création d’un “privacyleft”. Mais cette approche, si elle paraît féconde et devrait sans doute continuer à être creusée, est insuffisante pour résoudre la question principale : il ne peut y avoir de “biens communs” au sens propre que lorsqu’une communauté se donne des règles de gouvernance pour la gestion d’une ressource mise en partage. Les licences restent fondamentalement des instruments de gestion individuelle, chaque individu décidant à son niveau des usages qu’il souhaite autoriser sur ses données. A elles seules, les licences ne créent jamais d’elles-mêmes un “commun”. Il faut en plus de cela qu’une communauté s’organise et se dote d’institutions pour “faire commun”. Pour reprendre des exemples connus, Wikipédia ou Debian sont véritablement des biens communs, pas seulement parce qu’ils sont placés sous des licences libres les rendant inappropriables à titre exclusif, mais parce que les communautés qui produisent et maintiennent ces ressources ont su créer un appareillage de procédures et d’instances mettant en place une gouvernance ouverte.

Remettre au centre la question institutionnelle

A la question “une gouvernance en communs des données personnelles personnelles est-elle possible ?“, il faut donc d’abord chercher une réponse d’ordre institutionnelle, et pas seulement juridique. Antonio Casilli pointe d’ailleurs très bien cette dimension dans son texte, en évoquant des “collectivités sociales” en formation dans le champ des données personnelles :

La vie privée s’est transformée et n’est plus une transaction où chaque individu serait seul face aux autres, mais une concertation où les motivations des citoyens se combinent pour créer des collectivités sociales (groupes de pression, association spécialisées, instances reconnaissables de porteurs d’intérêts) qui engagent une confrontation avec les organisations industrielles et les pouvoirs étatiques. La nature éminemment collective de la négociation qui se mène actuellement autour de la vie privée, permet de lire sa défense avant tout comme une confrontation conflictuelle et itérative visant à adapter les règles et les conditions d’usage des services aux besoins des utilisateurs.

Traditionnellement et à la suite des travaux d’Elinor Ostrom et de son école, on tend à définir les biens communs à partir d’un tryptique : une ressource mise en partage (1) pour laquelle une communauté (2) se dote de règles de gouvernance ouverte (3). Mais certains auteurs appellent aujourd’hui à reconsidérer le poids respectif de ces trois éléments et à faire passer en premier la dimension institutionnelle, renvoyant aux modes de gouvernance ouverte. C’est le cas par exemple de Pierre Dardot et Christian Laval, dans leur ouvrage “Commun : essai sur la révolution au XXIème siècle” paru cette année. Pour eux, davantage que “les biens communs” – appellation qu’ils appellent d’ailleurs à abandonner -, ce qui est importe réellement c’est “LE commun”, au sens de pratique instituante :

Le commun ne peut être un objet […], le commun n’est pas non plus une chose (res), pas plus qu’il n’est une propriété ou une caractéristique d’une chose […]. Le commun est avant tout affaire d’institution et de gouvernement […] Chaque commun doit être institué par une pratique qui ouvre un certain espace en définissant les règles de son fonctionnement. Cette institution doit être continuée au-delà de l’acte par lequel un commun est créé. Elle doit être soutenue dans la durée par une pratique qui doit s’autoriser à modifier les règles qu’elle a elles-mêmes établies. Une telle pratique es ce que nous appelons une praxis instituante.

Il y a quelque chose de paradoxal de prime abord à affirmer que les données personnelles ou même la vie privée pourraient être considérées comme un commun, dans la mesure où ces termes renvoient au personnel et à l’intime. Mais ce paradoxe disparaît dès lors que l’on comprend que dans les Communs, ce qui importe à titre principal n’est pas tant la ressource partagée que l’organisation d’institutions fonctionnant sur la base d’une gouvernance ouverte. Or Antonio Casilli dans sa troisième thèse affirme avec raison que “au lieu de s’estomper, le souci de la société se démocratise dans la société en réseau”. Ce qui est en train de “faire commun”, c’est la prise de conscience de l’importance de défendre la vie privée comme un bien collectif et la nécessite pour cela d’inventer d’autres règles que celles imposées de manière inique par les firmes à la tête des grandes plateformes sociales ou les États, dont la collusion est en train d’organiser la mise à mort de la vie privée.

Dépasser l’action collective “éruptive”

Ce qui est remarquable, c’est que dans les premiers temps du web social, les plateformes étaient en quelque sorte “obligées” de prendre en compte la dimension collective dans la gouvernance des données personnelles, même si c’était pour mieux la neutraliser. Facebook pendant plusieurs années a ainsi organisé des procédures de vote pour que ses utilisateurs se prononcent sur les changements des conditions d’utilisation. Cette formule constituait en grande partie une sorte de “trompe-l’oeil”, puisqu’il était nécessaire que 30% des utilisateurs expriment un vote pour que la décision soit prise en compte, ce qui n’est jamais arrivé. En 2012, Facebook a d’ailleurs supprimé ce mode de validation par vote des changements de CGU, pour tenter d’imposer en force des modifications unilatérales que les utilisateurs sont réputés accepter par anticipation. La brutalité de cette politique a entraîné la réaction de la puissante Federal Trade Commission aux États-Unis, qui a imposé à Facebook d’informer les utilisateurs à chaque changement de CGU susceptibles d’avoir une incidence sur leur vie privée et de leur faire approuver.

Une époque pas si lointaine où Facebook organisait des votes sur ses changements de CGU…

Mais cette formule n’est pas réellement protectrice, les individus approuvant dans leurs grande majorité mécaniquement ces modifications, pas plus d’ailleurs que ne l’était vraiment la procédure de vote, devant laquelle les individus restaient passifs. Pourquoi ? Parce que le vote, tout comme l’acceptation des modifications contractuelles s’adressent à l’individu isolé. Il n’existe pas encore un tissu d’institutions suffisamment dense et structuré au sein de la société civile pour que cette défense de la vie privée devienne une véritable “cause commune”, génératrice d’actions collectives efficaces.

Pour être plus précis, il faut constater qu’il y a eu par le passé des moments d’action collective “éruptive”, lorsque les plateformes ont cherché à aller trop loin et trop vite dans l’exploitation des données personnelles. Facebook par exemple a été contraint de reculer en 2009 lorsqu’il a cherché à conserver les droits sur tous les contenus, même ceux retirés par ses membres. Instagram en 2012 a été sévèrement mis à mal en cherchant à se faire octroyer des droits d’exploitation publicitaire très larges sur les photographies postées par les usagers. Google s’est empêtré pendant des années dans la “NymWar”, à propos de l’usage des pseudonymes sur Google +, avant de devoir reculer. Dans ces moments de colère et de réprobation, la force collective des internautes s’affirme et se donne à voir, amplifiée par les phénomènes de circulation virale de l’information et les possibilités d’action que donne Internet à tout un chacun. Mais ces irruptions du collectif restent à ce jour insuffisantes, parce qu’elles ne débouchent pas sur une structuration de l’action à travers la mise en place d’institutions qui donneraient une consistance réelle à ces mouvements, pour déboucher sur un “faire commun”.

Les recours collectifs comme matrice d’un Commun des données personnelles ?

Cependant, les choses pourraient changer à mesure que les utilisateurs renouvellent leurs formes d’action. De ce point de vue, il me paraît très important de suivre le recours collectif, initié cet été par l’autrichien Max Schrems contre Facebook pour violation du droit protégeant les données personnelles. Le parcours de Max Schrems est particulièrement intéressant à observer. Ce dernier a en effet commencé par agir individuellement contre Facebook pour la défense de ses droits, à travers une prise de conscience personnelle. Mais voilà à présent qu’à travers le mécanisme du recours collectif, il a été à même de rassembler et de fédérer plus de 60 000 citoyens, à travers une campagne “Europe vs Facebook” brillamment orchestrée sur Internet. Il est d’ailleurs toujours possible de se joindre à ce recours pour participer à cette action et je vous recommande vivement de le faire.

La question essentielle à mon sens maintenant ne réside pas dans le fait de savoir si juridiquement cette action en justice va réussir ou échouer, mais si cette initiative collective va être capable de se structurer et de s’institutionnaliser, selon des modes de gouvernance ouverte, de manière à constituer l’embryon d’un véritable Commun autour des données personnelles. Si d’autres actions similaires se lancent et se dotent d’institutions, alors une “fédération” pourra émerger et donner naissance à un Commun global.

Tout autant que la création de nouvelles licences, l’action en justice peut constituer un levier intéressant pour donner naissance à une gouvernance en commun des données personnelles. Cela renvoie d’ailleurs dans l’histoire des biens communs à des pratiques identifiées. Au XVIIIème siècle, lorsque les droits d’usage dont les populations bénéficiaient sur les forêts et les pâturages furent menacés par le mouvement des enclosures en Angleterre, c’est en partie devant la justice royale que les “commoneurs” lancèrent des recours pour obtenir la protection de ces droits, dont certains furent couronnés de succès (voir  ce sujet l’ouvrage “La guerre des forêts” d’Edward P. Thomson). On peut lire le recours collectif initié par Max Schrems comme une démarche similaire de “récupération du Commun”.

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Si comme le dit Antonio Casilli, la vie privée a cessé d’être un droit individuel pour devenir une négociation collective, il nous reste à inventer et à faire émerger des institutions pour en faire un véritable Commun.