Monthly Archives: December 2020

Recensione “Schiavi del clic” (Sindacato Networkers, 24 dic. 2020)

Il sito del Sindacato Networkers (UILTuCS) ospita una recensione del mio libro Schiavi del clic (Feltrinelli, 2020).

Siamo tutti schiavi del clic?
Siamo tutti schiavi del clic?

Siamo tutti schiavi del clic? Parte da questo assunto “Schiavi del clic”, il libro inchiesta sul nuovo capitalismo delle piattaforme di Antonio Casilli, sociologo, docente all’università Télécom di Parigi e ricercatore associato alla Scuola di studi superiori in scienze sociali.

Pubblicato nel nostro Paese a settembre 2020, il testo ha il pregio di raccontare in maniera chiara e semplice l’evoluzione del lavoro seguendo tre filoni: il microlavoro, il digital labor e il lavoro sociale in rete.

Casilli ha avuto la capacità e la competenza di riprendere le teorie economiche, sociali e giuridiche che nei secoli si sono avvicendate e rileggerle in una chiave quanto mai attuale e precisa.

La tesi principale spiegata dall’autore è la mancanza di una coscienza e di una solidarietà di classe a ostacolare oggi la strutturazione di un orizzonte di lotte intorno al digital labor.

Un fenomeno di quel lavoro spezzettato e datificato che serve ad addestrare i sistemi automatici che è stato reso possibile da due tendenze storiche: l’esternalizzazione del lavoro e la sua parcellizzazione.

Queste due tendenze sono apparse in momenti diversi e si sono sviluppate seguendo cicli disallineati, fino a che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione non le hanno fatte convergere.

Secondo il sociologo italiano trapiantato nella capitale francese, per superare lo sfruttamento attuale bisogna mettere da parte la retorica schiavistica, perché è proprio questa retorica che impedisce di vedere in che misura tutti i lavoratori del clic non sono servi esclusi dal corpo sociale ma, al contrario, costituiscono una collettività in cerca di coscienza e portatrice di una missione storica di emancipazione.

Il libro che – con un ventaglio ricco di esempi e con un’approfondita bibliografia – consente al lettore di avere un quadro complessivo sul fenomeno del lavoro tramite piattaforme digitali che finora difficilmente è stato raggiunto.

Il volume dal titolo “Schiavi del clic” porta avanti tre filoni: microlavoro, digital labor e lavoro sociale in rete

In tal senso, anche aver ripercorso il significato del termine piattaforma nel tempo e sotto vari punti di vista, offre una decisa conferma della volontà dell’autore di andare fino in fondo nello scoprire gli altarini della rivoluzione tecnologica.

La panoramica esaustiva di esperienze lavorative all’ombra dell’intelligenza artificiale fa capire facilmente come le dinamiche di questo fenomeno tecnologico fondino le radici nell’organizzazione del lavoro che da secoli si ripete e che non fa differenza tra Nord e Sud del mondo.

Basta pensare alle “digital farm” o alle “click farm” presenti in India, Pakistan, Bangladesh, Nepal, Indonesia e Sri Lanka, così come nelle zone svantaggiate del Nord dove le immagini dei media generalisti hanno mostrato appartamenti che ospitavano decine di persone impegnate a cliccare su centinaia di smartphone.

Chiaramente non mancano i riferimenti più comuni alle pratiche lavorative opache dei big tecnologici da Amazon, Facebook, Uber e Google per passare alle esperienze dei fattorini delle consegne a domicilio, e una vasta casistica che sfata il mito della completa automazione dei processi lavorativi svolti finora dall’essere umano.

Casilli, introducendo le battaglie sindacali e quelle nate “dal basso” per garantire diritti e tutele ai lavoratori digitali, chiude il suo libro proponendo alcune soluzioni, anche già in atto nel panorama internazionale: dal cooperativismo di piattaforma alla proposta – anche se radicale – di un reddito sociale digitale.

Tra le proposte, cooperativismo e perfino un reddito sociale digitale

Sempre con quella capacità di analisi che mostra limiti e opportunità in maniera equilibrata.

Questo perché, secondo l’autore, un’altra piattaformizzazione del lavoro è possibile.

Perché, come si può leggere nella postfazione di Dominique Méda, la tesi di Casilli è potente: non soltanto non c’è e non ci sarà nessuna grande sostituzione degli umani da parte dei robot, ma non per questo il futuro sarà più roseo.

[Vidéo] [Séminaire #ecnEHESS] Aux sources du du travail du clic (wébinaire A. Casilli + RYBN @ Gaîté Lyrique, 16 déc. 2020)

Notre séminaire Étudier les cultures du numérique a été à nouveau accueilli par la Gaîté Lyrique pour un événément entièrement en ligne afin de respecter les mesures sanitaires. J’ai assuré mon intervention en binôme avec le collectif artistique RYBN qui développe entre autres le projet “Human Computers”.

“Aux sources du travail du clic : automates et usines à calcul (XVIIIe-XXIe siècle)”

Antonio A. Casilli (Télécom Paris, Institut Polytechnique de Paris)

RYBN

mercredi 16 décembre 2020, 19h-21h
Lien zoom : https://us02web.zoom.us/j/82845636453?pwd=TytjQXY0MlQ0cUpuWXp0dFNuMUJiZz09

Se pencher sur l’impact actuel de l’intelligence artificielle sur la société implique d’abord qu’on analyse le “travail du clic” nécessaire pour produire de grandes bases de données qui permettent l’apprentissage machine. Myriades de travailleur•ses, souvent recruté•es par le biais de plateformes numériques spécialisées, annotent, étiquettent, corrigent et trient les données qui permettent de calibrer et de tester des solutions intelligentes. Les micro-tâches réalisées par cette force de travail invisibilisée consistent, par exemple, à étiqueter des objets sur une photographie pour entraîner des modèles de vision par ordinateur, ou à vérifier l’exactitude des transcriptions réalisée par des système de conversion de la parole en texte.

Ces tâches de calcul humain, fragmentées et déléguées à une main d’oeuvre sous-payée, pourraient sembler un phénomène récent, mais en réalité elles existent depuis plusieurs siècles. Les recherches historiques documentent la présence d’”ordinateurs humains” (human computers) avant notre époque. A la fin du XVIIIe on confiait à des chômeurs des tâches de calcul répétitives, nécessaires pour fabriquer les tables logarithmiques. Dans le courant du XIXe siècle, l’idée allait être reproduite dans d’autres domaines tels que les données météorologiques, l’analyse des transmissions électriques, l’astronomie. 

Déjà à cette époque le travail des “ordinateurs humains” oscillait entre deux modèles différents : la salle de calcul, proche du paradigme de l’usine, qui allait devenir le prototype des data center des plateformes capitalistes ; le calcul domestique, proche de la “cottage industry“, qui allait inspirer les grandes plateformes de micro-travail comme Amazon Mechanical Turk. Si ces activités de human computing ont survécu à l’essor de l’électronique et du numérique au XXe siècle, et deviennent aujourd’hui l’ingrédient secret de l’intelligence artificielle, il est urgent de les analyser en jetant un pont entre l’histoire des sciences et la sociologie des techniques.

Recensione del libro “Schiavi del clic” (Il Tascabile, 9 dic. 2020)

Sul sito Il Tascabile, l’attivista e filosofo Camillo Chiappino recensisce il mio libro “Schiavi del clic”.

Schiavi del clic di Antonio A. Casilli

Diritto alla disconnessione, tele-lavoro, contratti per i lavoratori digitali, operai del click. Questo campo di nozioni comunemente associato a piccole nicchie di ingegneri informatici e programmatori comincia a diffondersi a tutta la società con la crisi aperta dalla pandemia. Che si tratti dell’applicazione dello smartworking a molti settori lavorativi, o della centralità assunta dai lavoratori delle piattaforme afferenti al mondo delle consegne, la “digitalizzazione” delle mansioni umane non riguarda più soltanto il mito-guida dello sviluppo tecnologico dei nostri tempi, e cioè la sostituzione del lavoro umano grazie all’intelligenza artificiale. Il testo di Antonio A. Casilli Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo? viene tradotto in italiano allo scoccare di questa nuova consapevolezza, sostenendo una tesi del tutto opposta alle promesse della Silicon Valley: “la piena automazione non si farà”. 

Nel 2006, il fondatore di Amazon Jeff Bezos presenta “Amazon Mechanical Turk”, un progetto che contraddice gli obiettivi e le opportunità che guidano lo sviluppo di sistemi intelligenti autonomi dall’intervento umano. Si tratta di una piattaforma che subappalta a centinaia di migliaia di lavoratori digitali (ad oggi se ne stimano più di 500.000) micro-mansioni digitali che i software intelligenti di altre aziende non sono in grado di processare – traduzioni, annotare video, smistare tweet, abbinare prodotti e immagini etc. Nel suo discorso di presentazione, il mito della sostituzione automatica viene ridimensionato. Non a caso, il titolo di questo intervento è This is basically people-as-a-service. La tesi del libro di Casilli assume in toto questo questa battuta d’arresto:

Siamo agli antipodi delle fantasie robotiche che alimentano l’immaginario degli investitori e dei media: qui vediamo soltanto una miriade di proletari del clic, lavoratori non specializzati che svolgono le mansioni necessarie per selezionare, migliorare, rendere i dati interpretabili. (…) Il lavoro di questi proletari del clic è fondamentale per produrre quella che spesso non è altro che intelligenza artificiale “fatta a mano”.

Casilli decostruisce ogni narrazione che cerchi di mistificare la vera posta in palio dietro le promesse dell’intelligenza artificiale: il trionfo delle piattaforme digitali. Per farlo, utilizza un ampio armamentario analitico, che spazia dalla genealogia dei concetti chiave per comprendere il lavoro digitale – robot, piattaforma, digitale, schiavitù -, all’inchiesta operaia di tradizione marxista per mettere in luce le nuove condizioni di sfruttamento dell’oggi. È così che dimostra una tesi all’apparenza controintuitiva: se siamo disposti ad accettare che “il lavoro non coincide con l’occupazione”, l’introduzione di nuove tecnologie richiede un bisogno sempre maggiore di lavoratori.

L’architrave dell’argomentazione passa per una distinzione molto importante: quella tra lavoro automatizzato e lavoro digitalizzato. L’applicazione delle tecnologie ai processi lavorativi non somiglia alle grandi braccia di metallo della macchina automotrice ottocentesca, ma consiste in “robot logici” – denominati bot – che organizzano dati, informazioni, la domanda da parte di aziende terze e l’offerta, più o meno consapevole, di mansioni da parte di milioni di utenti-lavoratori. L’errore più comune è di “usare quello stesso termine – robot – per parlare tanto di macchine industriali quanto di stringhe di codice informatico che ordinano, classificano, calcolano itinerari, twittano, chattano, fanno acquisti etc.”. La digitalizzazione delle mansioni umane condivide con l’automazione la tendenza taylorista a standardizzare e parcellizzare le azioni affinché interagiscano meglio con gli algoritmi; rivoluzionando tuttavia del tutto il rapporto tra le aziende e lo spazio:

La produzione digitale può essere realizzata ovunque: il luogo fisico in cui si manifesta l’automazione non è prestabilito, né limitato ai confini dell’azienda tradizionale. Ha luogo altrove, ovunque. Anzi: poiché la si può parcellizzare in una miriade di mansioni uniformi, ha luogo in vari ovunque.

L’accesso a prestatori d’opera su scala globale – in particolare chi vive in contesti di forte impoverimento – e la suddivisione in micro-mansioni porta con sé due effetti rilevanti: in primo luogo lavorare per le piattaforme comporta un continuum di attività non remunerate, sottopagate e remunerate in modo flessibile e sottopagato”; e in secondo, l’occultamento dell’attività umana dietro il velo dell’automazione. Eppure la radice semantica dell’espressione “digital labour” è “digitus, il dito che serve a contare ma anche quello che clicca su un tasto”, ricorda Casilli sottolineando la presenza del corpo, milioni di corpi, dietro ogni processo auto-movente.

E il libro di Casilli è a tutti gli effetti un’inchiesta sul lavoro: porta alla luce la quota di lavoro non riconosciuta e non pagata; si interfaccia direttamente con il malessere dell’oggetto di ricerca e le sue rivendicazioni; infine, descrive tendenze non ancora sviluppate a pieno. La parte seconda del libro coniuga questi livelli nell’analisi di tre forme fondamentali di digital labour  (digital labour on-demand, microlavoro, lavoro sociale in rete) evidenziando il ruolo svolto dalle piattaforme nel cambiare il mondo del lavoro nella sua interezza, anche quello non digitale:

La piattaforma non è soltanto un modello di organizzazione dei giganti della web economy, ma un paradigma che ispira un numero sempre crescente di attori. Le aziende private ma anche quelle statali o parastatali hanno iniziato un processo di piattaformizzazione per riprodurre quel modello.

Il digital labour on-demand comprende piattaforme come Deliveroo, Uber e Care.com. I lavoratori svolgono le loro mansioni “sia online che nel mondo esterno” entro spazi circoscritti (città, regione): l’applicazione abbina clienti e lavoratori/trici, ma le prestazioni sono svolte dal vivo. Queste aziende costituiscono un vettore fondamentale di allargamento della digitalizzazione: spostano su piattaforma attività che richiedono grande sforzo fisico e attenzione mentale – guidare, consegnare, accudire anziani – rendendo plausibile l’unione tra lavoro fisico e da remoto. Con l’effetto di “guadagnare molto meno in media rispetto agli omologhi con contratto tradizionale”. Sono queste piattaforme a svelare il paradosso al cuore del modello di intermediazione digitale: nonostante si tratti di “lavoro ostensivo” (visibile), “la vita quotidiana è fatta innanzitutto di mansioni informatiche svolte sullo schermo dello smartphone”. Un conducente di Uber deve decifrare e organizzare “le procedure opache dell’interfaccia”, controllando costantemente l’applicazione per prenotare richieste e contrattare il prezzo delle corse; monitorare la sua e-reputation aggiornando il profilo, gestendo i feedback e le relazioni con i passeggeri con messaggi e chiamate: “non è una questione di popolarità o di astratto capitale sociale (…) Per evitare di essere escluso dal servizio, deve dedicarsi di più alle interazioni con i passeggeri” e agli “aspetti social”. Con questi casi di studio, Casilli ci libera dall’idea che il digital labour sia di natura immateriale: al contrario, la dicotomia tra sforzo fisico e attività della mente va superata identificando “una dicotomia ancora più determinante, quella che oppone un lavoro immediatamente riconoscibile ad attività che, attraverso la mediazione delle piattaforme digitali, diventano tacite, invisibili e fondamentalmente implicite”.

Il microlavoro consiste nell’esecuzione di attività standardizzate e a bassa qualificazione, mentre il lavoro sociale in rete riguarda le attività che si svolgono sui social network. Al netto delle differenze tra i due, piattaforme come Mechanical Turk e Facebook realizzano la tendenza alla delocalizzazione delle mansioni senza limiti geografici e soggettivi: “il lavoro mediato dalle tecnologie (…) richiama paradossi simili a quelli del lavoro domestico [perché] permettono di sfruttare al massimo le logiche di dipendenza che caratterizzano gli ecosistemi umani (…) non all’interno del classico luogo di lavoro”. Si lavora in ogni dove e momento, sia come operaio del clic – correggendo da casa stringhe di codice o traduzioni a pochi centesimi – sia come utente che elabora post, commenti e like nei momenti di svago.

Tutto ciò è da considerarsi lavoro? Casilli non ha dubbi a riguardo. Sono tali perché generano tre forme di valore decisivi per le aziende del digitale: valore di “qualificazione”, ovvero “il lavoro effettuato dagli utenti per designare oggetti, informazioni o altri utenti allo scopo di far funzionare le architetture informatiche”; valore di “monetizzazione”, grazie alla vendita dei dati sul “mercato miliardario del targeting pubblicitario”; il valore di automazione, dove le informazioni degli utenti, le loro capacità di classificazione e supervisione (quante volte abbiamo corretto una traduzione automatica su Facebook?) allenano gli algoritmi: sono le “fonti principali di esempi per parametrare gli algoritmi di apprendimento e misurare la performance”.

In fondo, conclude Casilli, la creazione di sistemi intelligenti del tutto autonomi è logicamente impossibile: “l’intelligenza umana che vorremmo far riprodurre alle macchine non è nè un processo immutabile nè un’entità univoca (…) il simulacro artificiale ha bisogno di aggiornamenti che soltanto gli esseri umani saranno in grado di fornire”. Anzi, ogni tentativo di sostituzione non fa altro che reinventare lo sfruttamento.

[Video] Intervista con la Fondazione Giannino Bassetti (4 dic. 2020)

Intervista condotta da Gabriele Giacomini (Fondazione Giannino Bassetti).

Per limitare l’avidità di dati serve una fiscalità del digitale

L’obiettivo di questo “secondo giro” di interviste è, in primo luogo, analizzare le principali sfide alla cittadinanza poste dalla diffusione pervasiva delle ICT e in secondo luogo, individuare le diverse proposte teoriche e pratiche avanzate da filosofi, giuristi, politologi, nonché le azioni fattuali che sono state messe in campo da istituzioni private, amministrazioni locali e governi statali per la promozione di una cittadinanza digitale autonoma e consapevole, che porti all’elaborazione di un habeas mentem adeguato alle sfide presenti e future di una comunità politica (nel senso di polis) sempre più innervata dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. (NdR)

(Sotto il video, sintesi ed elenco delle domande.)

Antonio A. Casilli è professore ordinario di Sociologia alla Telecom Paris, scuola di ingegneria delle telecomunicazioni dell’Institut Polytechnique de Paris. Dal 2007 coordina il seminario “Studiare le culture digitali” alla Scuola di studi superiori in scienze sociali di Parigi (EHESS). È fra i fondatori dell’INDL (International Network on Digital Labor). Fra i suoi libri, tradotti in diverse lingue: “Les Liaisons numériques” (Editions du Seuil 2010), “Against the hypothesis of the end of privacy” (con Paola Tubaro e Yasaman Sarabi, Springer 2014), “Trabajo, conocimiento y vigilancia” (Editorial del Estado 2018), “Schiavi del clic” (Feltrinelli 2020).

Intervista del 13 novembre 2020.

Con le tecnologie digitali non siamo usciti dalla società industriale. Abbiamo, invece, aggiunto un nuovo “livello”, rappresentato dalla “datificazione” del reale. L’informazione, rappresentata dai dati, diventa un fattore produttivo centrale.
Grandi protagonisti di questa nuova fase del capitalismo sono le piattaforme, architetture informatiche, caratterizzate da vere e proprie finalità politico-programmatiche (come suggerisce la genealogia del concetto “piattaforma”). La loro filosofia si basa su tre principali idee: la condivisione libera dell’informazione, la diffusione del lavoro autonomo e l’abbandono del lavoro salariato, il superamento degli stati-nazione. Inoltre, rispetto alle imprese del secolo scorso, le piattaforme oltrepassano i confini dell’azienda in senso stretto, diventando delle aziende-mercato, e non sono più dominate dall’ossessione di produrre valore, ma di estrarre valore dai loro utenti-produttori. Alla base del capitalismo digitale, dunque, troviamo una massa di lavoratori impliciti che, in diverse forme, producono l’enorme mole di dati necessaria al funzionamento delle piattaforme.
La gestione (e il controllo) dei dati diventa, quindi, terreno di contesa fra piano economico e piano politico, fra il livello dei consumi e quello della cittadinanza. Un esempio di ciò è la “fine della privacy”. Secondo i lobbisti delle piattaforme, la privacy in quanto valore politico sarebbe una parentesi storica. Ovviamente, la “fine della privacy” è commercialmente utile per le piattaforme. Al contrario, la privacy è un problema per il business model di molte piattaforme, che acquisiscono dati e li rivendono. Per i cittadini, invece, la privacy resta una delle preoccupazioni sociali principali. Lo manifestano in modo diretto, ad esempio crittografando le loro comunicazioni, oppure facendo “pulizia” dei propri dati sulle piattaforme. Le piattaforme cercano di liberare i dati, gli utilizzatori invece cercano di chiuderli tatticamente.
Il GDPR europeo ha provato una sintesi fra promozione del mercato digitale e rispetto di standard minimi di protezione dei dati personali. Si tratta di un primo passo nella giusta direzione. Ma ci sono altri strumenti: ad esempio, l’antitrust, che può redistribuire il potere di mercato delle grandi piattaforme ma che può essere utilizzato anche per impedire a professionisti e lavoratori indipendenti del digitale di federarsi e sindacalizzarsi. Promettente sembra essere il settore della fiscalità del digitale. Così come è stata introdotta una tassa sulla produzione dell’inquinamento, si potrebbe congegnare una tassa sull’estrazione dei dati della popolazione di uno stato. Sarebbe un incentivo a limitare l’estrazione dei dati, perché questa avrebbe un costo maggiore rispetto ad oggi e spingerebbe le imprese digitali a soluzioni meno avide in termini di dati. È assolutamente sbagliata, invece, l’idea di retribuire gli utenti.

Queste le domande poste nell’intervista:

1. min. 0:51 – Rispetto alla società industriale, quali sono i poteri emergenti connessi allo sviluppo delle tecnologie digitali?
2. min. 4:53 –Nel tuo ultimo libro, “Schiavi del clic”, presenti il concetto di piattaforma attraverso la sua genealogia, facendone emergere l’aspetto politico. Quale è la natura essenziale delle piattaforme digitali e quali sono le varie forme con cui si declinano?
3. min. 16:57 –Fra le varie “profezie desideranti” delle piattaforme troviamo la fine dalla privacy su Internet. Questa idea ti convince? Gli individui sono pronti a sbarazzarsene o tengono ancora alla loro privacy? 
4. min. 28:12 –Che ne pensi del Regolamento generale sulla protezione dei dati dell’Unione Europea? Quali sono i suoi punti di forza e quali i punti di debolezza? 
5. min. 32:38 –Oltre al GDPR, quali sono gli altri strumenti per limitare la raccolta dei dati personali e la profilazione dei comportamenti? Si pensi, ad esempio, all’antritrust.
6. min. 41:05 –Considerato che i dati raccolti dalle piattaforme dipendendo dal “lavoro volontario” in rete degli utenti, questi ultimi dovrebbero essere “retribuiti”? È una operazione auspicabile e realizzabile? 
7. min. 49:02 –I “diritti digitali” di cui si discute da alcuni anni sono molti: oblio, identità digitale, accesso, anonimato, partecipazione eccetera. Quale è il diritto più importante nella società digitale? 
8. min. 52:49 –La “rivoluzione digitale” sollecita in molti modi la democrazia. Quale sarà il suo futuro?