Monthly Archives: September 2015

La blogosphère à propos de “Qu’est-ce que le digital labor?” (sept.-oct. 2015)

Sur son blog chez Rue89, Antonin Benoit analyse les liens entre micro-travail sur Amazon Mechanical Turk et son ancêtre médiéval, le Verlaagssystem (11 sept. 2015) : Internet réinvente l’ouvrier du textile du Moyen Age | Déjà-vu | Rue89 Les blogs

Le blogueur italien Luca De Biase pose la question : “digital labor,  métaphore ou bien nouvel outil de réflexion ?” (22 sept. 2015) : Antonio Casilli e i lavoratori del web – Luca De Biase

Serge Coosemans, blogueurs pour le magazine belge Le Vif, pointe les risques du “digital tipping” (micro-rémunération du “travail numérique à la pièce”) (28 sept. 2015) : Cacahouètes pour tous: sur Internet aussi, tout travail mérite salaire – Multimédia – FocusVif.be

Plateformes numériques et travail : programme du séminaire #ecnEHESS 2015-16

Depuis désormais huit ans, j’assure le séminaire EHESS Etudier les cultures du numérique : approches théoriques et empiriques. A l’occasion de la parution de mon nouvel ouvrage Qu’est-ce que le digital labor ? (Editions de l’INA, 2015 ; avec D. Cardon), le sujet autour duquel les séances s’articuleront cette année sera “Ce que les plateformes numériques font au travail”.  Et nous avons des invités de marque.

 

Programme séminaire EHESS 2015/16 “Etudier les Cultures du Numérique”

Ce que les plateformes numériques font au travail

  • 2 novembre 2015Antonio Casilli (Télécom ParisTech / EHESS) et Sébastien Broca (CEMTI Paris 8) : “Digital labor : une critique du capitalisme numérique ?”
  • (*) 7 décembre 2015Trebor Scholz (New School) et Paola Tubaro (CNRS) “Platform cooperativism: beyond monopoly, extraction, and surveillance”.
  • 4 janvier 2016Geoffrey Delcroix, Vincent Toubiana (CNIL), Martin Quinn (CVPIP) “Combien coûte un clic : données, industries culturelles et publicité”.
  • 1 février 2016Yann Moulier-Boutang “Capitalisme cognitif et digital labor”.
  • 7 mars 2016Jérôme Denis (Télécom ParisTech) et Karën Fort (Université Paris-Sorbonne) “Petites mains et micro-travail”.
  • 4 avril 2016Camille Alloing (Université de Poitiers) et Julien Pierre (Université Stendhal Grenoble 3) “Questionner le digital labor par le prisme des émotions”.
  • 2 mai 2016Judith Rochfeld (Paris 1 Panthéon-Sorbonne) et Valérie-Laure Benabou (UVSQ) “Le partage de la valeur à l’heure des plateformes”.
  • 6 juin 2016Bruno Vétel (Télécom ParisTech) et Mathieu Cocq (ENS) “Les univers de travail dans les jeux vidéos”.

L’enseignement a lieu le premier lundi du mois, de 17h à 20h (salle 5, EHESS 105 bd Raspail 75006 Paris).

(*) Exceptionnellement, le séminaire de Trebor Scholz sera en anglais et aura lieu à l’Institut Mines-Télécom, 46 rue Barrault, 75013 Paris.

Comme toujours les inscriptions sont ouvertes aux auditeurs libres : il suffit d’envoyer un petit mail gentil via ce formulaire. Vous pouvez suivre le séminaire en direct sur Twitter (hashtag #ecnEHESS) ou télécharger les slides, publiées au fur et à mesure sur mon site casilli.fr. ATTENTION : le séminaire n’est pas retransmis en streaming ni enregistré en vidéo. Bref : be there or be square !

The ghost of digital labor is haunting Europe (La Repubblica, Italy, 28 Sept. 2015)

“400 million ghosts haunt Europe: they are the users of web platforms, who represent the reserve army of labor in today’s digital capitalism”. Italian national newspaper La Repubblica engages with the theses contained in my book Qu’est-ce que le digital labor? (INA Editions, 2015) in this article about social media users organizing and struggling for recognition.

 

“E ora pagateci per i nostri post” L’ultima crociata contro i social

Facebook &C. fanno profitti miliardari con i contenuti in rete “Ma i clic hanno un prezzo”,protestano intellettuali e utenti

GIULIANO ALUFFI, la Repubblica • 28 settembre 15, p. 35

Perlomeno per noi. Valgono infatti, nel loro insieme, miliardi di dollari. Creando e scambiando contenuti, infatti, aumentiamo il traffico sui social network permettendo loro di vendere sempre più pubblicità. Facebook prevede per quest’anno 6,82 miliardi di dollari di introiti pubblicitari, ma non li condividerà con i suoi “operai digitali”, ossia gli utenti, perché costoro non sanno nemmeno di lavorare.

Ma di recente si levano più alte le voci di quei sociologi, economisti ed attivisti sindacali che ritengono che si debba corrispondere la giusta mercede anche a chi clicca, scrive e condivide online: sono di qualche giorno fa due polemiche su Liberation e sul Guardian che fanno pensare che un Quarto Stato digitale si sia messo in marcia per i suoi diritti.

“Il lavoro digitale, cioè la riduzione delle nostre relazioni e attività digitali a momento della produzione, è un fenomeno invisibile, ma la sua vera natura emerge in caso di crisi, come quando nel 2014 Flickr annunciò che avrebbe iniziato a fare profitti vendendo le foto messe online dai suoi iscritti” spiega il sociologo Antonio Casilli, docente al Paris Tech e autore del nuovo saggio “Qu’est-ce que le Digital Labor?” (ed. Ina). Il convitato di pietra nei discorsi sul lavoro digitale è la remunerazione.

“Esistono valutazioni, pubblicate in studi universitari, che stimano il valore di un profilo Facebook tra 11 e 24 dollari. Ma sono stime irrisorie, opache e distorte, volute dai social media stessi, che tendono a finanziare questi studi perché producano questi modelli econometrici al ribasso ” osserva Casilli.

“Ma oggi qualcosa si muove. I sindacati sembrano più sensibili al tema del lavoro digitale: l’IG Metall tedesca, ad esempio, ha da poco lanciato la piattaforma online faircrowdwork. org, dove tutti coloro che fanno lavoretti online come quelli offerti da TaskRabbit possono scambiarsi recensioni sui datori di lavoro e denunciare casi di sfruttamento”. Ma lo sfruttamento peggiore è quello che imponiamo a noi stessi. “Ci sembra di avere sempre meno tempo, nelle nostre vite. Ma il tempo in sé è rimasto invariato.

È il tempo libero che sta scomparendo ” spiega Craig Lambert, giornalista dell’Harvard Magazine e autore del recente saggio “Shadow work: the unpaid, unseen jobs that fill your day” (ed. Counterpoint). “Basta pensare alla nostra giornata-tipo per renderci conto che siamo sempre più indaffarati in piccole attività che a noi non portano nessun reddito, ma che fanno arricchire, o risparmiare, qualche azienda. Siamo nell’era del “lavoro ombra”, un fenomeno che ha introdotto una novità sociale: il lavoro servile  –  proprio perché non retribuito – per la classe media.

Ma il lavoro-ombra che facciamo per i social network, o quando rimpiazziamo quello di un impiegato di banca con i nostri clic su un sito di online banking, o quando scriviamo recensioni per siti come Amazon o Tripadvisor, ha una scala, un’ubiquità e una pervasività totale, in grado di ricoprire, potenzialmente, ogni nostro momento di veglia, azzerando il tempo che potremmo dedicare a tutto ciò che non è né produzione né consumo “.

Il tempo libero è invaso e mercificato. “Oggi la crisi del capitalismo fa sì che per produrre nuovi beni e nuove commodity si tirino dentro il mercato, monetizzandoli, aspetti della vita che in passato erano considerati estranei all’economia e al profitto. Come le relazioni sociali” commenta Ursula Huws, sociologa del lavoro all’Università di Hertfordshire e autrice del saggio “Labor in the global digital economy: the Cybertariat age”.

“Il bisogno di comunicare con gli amici e di scambiarsi consigli e battute è connaturato all’umanità, un bisogno elementare come respirare: fino a poco tempo fa non avremmo mai potuto immaginare che le dure leggi del capitalismo avrebbero invaso anche questo ambito”.

Grazie alla tecnologia. “Da un lato l’informatica struttura e standardizza realtà fino a ieri del tutto informali: ad esempio Uber o TaskRabbit parcellizzano e regolano con precisione taylorista i lavori del tassista o del tuttofare. Dall’altro lato, però, destrutturano e rendono informale, o meglio precario, il mondo del lavoro così come lo conoscevamo”.

Source: “E ora pagateci per i nostri post” L’ultima crociata contro i social – Repubblica.it

[Slides] Private life and mass surveillance: my conferences mini-tour in Korea

In September 2015, I had the pleasure of spending a week in Seoul having accepted a joint invitation from the Institut Français of the French Embassy and the Goethe-Institut Korea.

A chance to familiarize myself with South Korea’s vibrant capital, meet colleagues and students (plus a bunch of Gangnam and Guro geeks), and give a mini-tour of conferences about privacy in the three major Seoul universities, known under the acronym SKY (Seoul National University, Korea University, Yonsei University).  Here are the slides of my Yonsei conference:

Dates

September 16, 2015 – Lecture at the Asiatic Research Institute, Korea University (ARI Colloquium).

September 17, 2015 – Research seminar at the Seoul National Univerity Asia Center (SNUAC)

September 18, 2015 – Conference at the Yonsei University Institute of Humanities

Press features

Article about the Yonsei conference in Korean newspaper Kyunghyang Shinmun

Interview about privacy and surveillance in the Korean newspaper Hankyoreh Shinmun

Interview on privacy and surveillance (Hankyoreh Shinmun, Korea, Sept. 22, 2015)

After my conference at the Yonsei University, Seoul, I was interviewed by Osung Kwon for the national Korean newspaper Hankyoreh Shinmun.

경제IT

“프라이버시, ‘홀로 있을 권리’에서 ‘사회적 협상 대상’으로 변화”

앙토니오 카질리 교수. 사진 프랑스문화원 제공
앙토니오 카질리 교수. 사진 프랑스문화원 제공
인터뷰 I 앙토니오 카질리 교수
2010년 1월8일 미국의 정보기술(IT) 매체 ‘테크크런치’가 주최하는 ‘크런치 어워드’ 시상식 자리에서 열린 공개 인터뷰에 두 사람이 마주 앉았다. 테크크런치의 창립자 마이클 애링턴과 페이스북의 최고경영자 마크 저커버그다. 붉은 안락의자에 앉은 두 사람은 여유만만했다. 애링턴이 “당신은 늘 프라이버시의 한계를 넓혀왔습니다. 당신은 사람들이 몇년 전에는 밝히기 꺼려했을 것들을 요즘 자발적으로 밝히는 데 놀랐다고 했죠. 앞으로 2년 뒤 프라이버시는 어떻게 될까요?”라고 물었다. 저커버그는 답했다. “제가 하버드대 기숙사에서 페이스북을 창업할 때만 해도 사람들은 저에게 ‘내가 왜 인터넷에 내 정보를 올리겠느냐’고 묻곤 했죠. 하지만 5년이 지난 지금, 사람들은 각종 (인터넷) 플랫폼에 모든 정보를 공유하고 있습니다. 시간이 흐르면서 사회적 기준이 진화했다고밖에 볼 수 없어요.” 세계 최대 소셜네트워크의 창조자 저커버그는 5년 전 “프라이버시의 시대는 끝났다”고 공언했다. 스마트폰과 발달된 인터넷 기술로 누구나 언제나 어디에서나 사진을 찍고 글을 공유할 수 있는 시대에 프라이버시라는 낡은 개념은 수명을 다했다는 말이다. 저커버그는 이를 ‘사회적 기준’, ‘진화’라는 단어를 통해 자연스런 법칙처럼 이야기했다. 앙토니오 카질리(사진) 프랑스 파리공과대학 교수는 여기에 의문을 품었다. 그는 논문과 같은 제목의 저서 <사생활의 종말이라는 가설에 대한 반박>(2014)을 통해 이를 집중적으로 다뤄 학계의 주목을 받은 바 있다. 프랑스와 독일문화원이 공동 주최한 ‘디지털 시대의 프라이버시’ 포럼 발제를 위해 방한한 그를 지난 18일 서울 중구의 프랑스문화원에서 만났다. “사회자본 축적과 사생활은 대립적
‘사생활 종말’ 구현하려는 기업 맞서
시민-정부-기업간 토론·협상 필요”
-사생활(프라이버시)은 종말을 맞았나? “최근 몇십년은 정보통신의 발달로 특징되는 시기다. 기술 발전 속에 사생활의 종말에 대한 연구가 이뤄졌다. 영미권 학자들이 주로 주장하는 바는 ‘기술이 계속 발전하고 확산한다면 개인의 사생활은 사라질 것’이라는 것이다. 나와 동료들은 이를 확인하고자 연구에 착수했다. 이를 통해 알게 된 사실은, 인터넷의 발달 때문에 개인은 사생활을 적극적으로 보호하지 않으면 안 될 필요에 봉착했다는 점이었다. 사생활의 보호는 현대 민주주의에서 빠질 수 없는 부분이다. 이는 미셸 푸코가 주로 사유했던 주제이기도 하다. ‘개인의 영역은 어디까지이고, 나라가 개입할 수 있는 영역은 어디까지인가’에 대한 문제다.” 그는 컴퓨터 공학자들과 공동으로 진행한 학제간 연구를 통해 소셜 플랫폼의 등장 이후 프라이버시에 대한 기준과 인식의 변화를 추적했다. 그가 확인한 바는 페이스북과 같은 기업체들이 정책을 통해 ‘사생활의 종말’을 구현하고 퍼뜨리는 경향을 보인 반면, 실제 개인들은 이를 따르기도 하지만 자신의 프라이버시를 지키려는 경향도 보여왔다는 점이다. 단적인 예가 페이스북의 프로필 설정의 변화다. 페이스북과 같은 소셜네트워크에 가입하면 이름, 성별, 나이부터 게시글이나 사진 등 자신에 대한 다양한 것들을 대중에게 공개할지 여부를 설정을 할 수 있다. 그런데 사용자가 별도 설정을 하지 않으면 회사가 기본으로 설정하는(디폴트 세팅) 공개 대상 범위는 2005년부터 2010년까지 꾸준하게 계속 넓혀져왔다. 처음에는 대중에게 공개되는 항목이 이름 정도였던 것이 이후에는 나이 등 인적 정보, 게시글, 사진 등으로 계속 확장돼왔던 것이다. 하지만 사용자들은 이를 따르면서도 대조적으로 움직이는 행태도 보였다. 2009~2010년에는 기존에 아무 문제 없이 공개했던 ‘좋아하는 뮤지컬’ 같은 항목도 비공개로 돌리는 경향이 나타났던 것이다. 회사는 사람들이 좀더 많은 콘텐츠를 자신의 소셜네트워크에 올릴수록 이득이다. 하지만 사람들의 행태는 좀더 복잡했다. 카질리 교수는 사람들이 인터넷을 통해 사회 자본을 축적하는 것과 프라이버시를 지키는 것 사이에 긴장 관계가 있다고 분석한다. 그는 이를 ‘프라이버시의 협상’이라는 개념으로 정리했다. -당신이 말하는 프라이버시의 협상은 무엇인가? “프라이버시가 더 이상 개인적 권리로서 기능을 다했으며 이제 협력적인 흥정이라는 새로운 개념으로 보아야 한다는 뜻이다. 현재 온라인 환경에서 사람들은 어떤 정보를 인터넷에 올릴 때 ‘내가 올리는 정보가 개인적인 것인가, 공적인 것인가’ 하는 판단을 더 이상 홀로 내릴 수 없다. 왜냐면 그 정보가 주변 사람들(친구, 팔로어, 업무관계자 등)에게 미치는 영향과 그 사람들의 반응에 따라 사적인지 공적인지가 결정되는 시대이기 때문이다. 좀더 중요하게는 정부와 인터넷기업 설계자들이 그 데이터를 어떻게 다루느냐가 사생활 영역인지를 결정하는 중요한 잣대가 되고 말았다.” 19세기 프라이버시가 외부나 정부의 간섭에 흔들리지 않고 집에 자신의 영역을 지킬 수 있는 ‘홀로 있을 권리’였다면 현대의 프라이버시는 이해관계자들 사이에 토론과 협상을 거치면서 끊임없이 변화하는 ‘협력적 개념’으로 바뀌었다는 분석이다. 그는 이런 협상이 나아가 시민의 권리 수호와 밀접한 연관이 있다고 강조한다. “협상은 또 시민, 정부, 플랫폼 기업 사이에 (사생활 영역을) 어떻게 설정할지에 대한 토론이 필요하다는 뜻이기도 하다. 사용자들은 어떤 정보가 사적인 것으로 다뤄져야 하고 어떤 정보가 공개되어도 무방한지를 설계하는 데 적극적으로 나서야 한다. 이는 국가의 대량 감시에 대한 대응책으로서 의미도 있다. 감시는 프라이버시라는 사적 권리를 강조하는 식으로 막기는 어렵지만, 정부 관리자와 시장 관계자, 개인들이 참여하는 협상을 통해 관리할 수 있다.” 권오성 기자 sage5th@hani.co.kr

앙토니오 카질리는 디지털 기술의 사회적 함의를 연구하는 사회학자로 프랑스 파리공과대학 교수이자, 에드가르 모랭(프랑스 철학자) 센터 사회학 연구원으로 재직중이다. 대표작인 <사생활의 종말이라는 가설에 대한 반박>(2014)을 비롯해 <디지털 관계>(2010) 등의 책을 냈으며, 온라인상의 사회연결망, 건강, 사생활 등에 대해 활발한 연구를 해왔다. 그의 연구는 사회과학과 컴퓨터 분석을 연결시켜 접근법에서도 주목을 받았다. 사회학자로 디지털 관계에 대한 연구에 관심을 가지게 된 이유에 대해 그는 “1970년대 프랑스 중산층 가정에서 자라난 나와 같은 세대에게 컴퓨터 기술은 가족 일상과 교육의 한 부분이었다. 이를 내 삶의 일부로 받아들였고 결과적으로 스스로에게 매일 쓰는 디지털 기기가 갖는 사회적 의미를 묻게 되는 게 자연스러운 탐구의 과정이 되었다”고 말했다.

Source: “프라이버시, ‘홀로 있을 권리’에서 ‘사회적 협상 대상’으로 변화” : IT : 경제 : 뉴스 : 한겨레

Digital labor et fiscalité du numérique (Corriere della Sera, Italie, 13 sept. 2015)

Il caso

Il progetto in Francia «Tassare il web per remunerare chi scrive sui social»

Elena Tebano, Corriere della Sera, 13 settembre 2015, pagina 18.

Siamo tutti inconsapevoli produttori digitali e per questo il nostro lavoro andrebbe remunerato attraverso un reddito di cittadinanza finanziato dai giganti del web. È la tesi, della quale si discute molto in Francia, lanciata del sociologo italiano Antonio Casilli, professore al Paris Institute of Technology e ricercatore all?Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales. Al centro del suo ultimo libro (Qu?est-ce que le Digital Labor uscito a fine agosto per Ina) c?è il concetto di«digital labor», lavoro digitale: «Con l?avvento del web sociale, a metà degli Anni 2000, l?utente non è più un semplice consumatore, ma produce contenuti: anche solo ripostare, taggare, citare sono azioni che aggiungono valore a quanto circola su Internet? spiega Casilli ?. Nell?ultimo lustro, inoltre, sono arrivati i big data : sono i dati personali dell?utente a creare valore per le aziende. Il fatto stesso di essere online, anche senza fare niente, si trasforma in momento produttivo». I dati così ricavati sono infatti ormai uno dei tesori del web. «Mentre le comunità di navigatori sono spinte dall?idea della cooperazione come dono reciproco, i giganti di Internet guadagnano con la cosiddetta value capture : Google, Facebook, Uber e Airbnb di fatto creano molto poco valore ma ne ?catturano? tantissimo», nota il sociologo italiano. È un nuovo modello economico che mette in crisi anche il rapporto tradizionale tra aziende del web e Stati nazionali. «Il rapporto sulla fiscalità del digitale commissionato dal Ministero dell?economia francese rileva che è difficile tassare i colossi di Internet perché il fatto che guadagnino dai dati dei loro utenti ci impedisce di sapere dove producono profitti. Quindi proponeva di tassarle in base al numero e all?attività degli utenti presenti nei singoli Paesi. Io vado un passo ancora oltre e propongo di usare quelle tasse per finanziare un reddito universale di cittadinanza». E quindi restituire agli inconsapevoli produttori digitali parte dei proventi del loro lavoro nascosto.Ma perché un reddito universale e non solo per i navigatori? «In Italia solo il 62% della popolazione è connessa a internet, in Francia l’83% ? dice Casilli : lo scarto tra utilizzatori di internet e popolazione generale si va riducendo»

Sortie de “Qu’est-ce que le digital labor?” : grand entretien d’Antonio Casilli dans Libération (12 sept. 2015)

Interview

Antonio Casilli : «Poster sur Facebook, c’est travailler. Comment nous rémunérer ?»

Par Jean-Christophe Féraud

Le sociologue développe le concept de «digital labor», le travail qui ne dit pas son nom, produit par les internautes qui alimentent les réseaux sociaux. Il défend l’idée d’un «revenu de base universel» en taxant les grandes firmes numériques.

Et si chacun de nos tweets, posts, commentaires ou contributions en ligne était en fait assimilable à un travail qui ne dit pas son nom ? Et si chaque internaute était une petite main au service des Google, Amazon et autres Facebook ? C’est le postulat du sociologue Antonio Casilli, qui vient de publier Qu’est-ce que le Digital Labor ? (INA Editions) avec Dominique Cardon. Pour ce spécialiste italien des impacts sociaux d’Internet, notre présence en ligne produit de la donnée et, par conséquent, de la valeur : une valeur intégralement captée par les géants du numérique. Ce qui pose la question de la (non) rémunération de ce nouveau «prolétariat numérique» exploité à l’insu de son plein gré par le «capitalisme cognitif». Diplômé de l’Université Bocconi de Milan, Antonio Casilli est maître de conférences en digital humanities à Télécom ParisTech. Il dirige aussi un séminaire sur les cultures numériques à l’Ecole des hautes études en sciences sociales.

Sur le Net, sommes-nous tous des travailleurs numériques qui nous ignorons…

Nous avons tendance à concevoir les internautes comme les consommateurs des plateformes numériques. Or, dans ce livre, je soulève une question séditieuse : et si, en fait, ils en étaient les producteurs, les ouvriers ? Chaque publication, chaque commentaire ou même chacune de nos connexions sur une application mobile ou un réseau social peut être considéré comme un processus assimilable à du travail. Quand je partage une information ou un conseil, a fortiori quand je mets en ligne un texte plus élaboré, je produis un contenu doté d’une valeur intrinsèque qui est captée par les plateformes numériques, et qui leur profite. Il en va de même pour tous nos clics, nos requêtes sur Google, nos «like» sur Facebook, nos «RT» sur Twitter. Et cela va même au-delà : avec les smartphones, les montres et les objets connectés disséminés dans notre quotidien, chacune de nos actions produit désormais des données qui alimentent le Big Data des entreprises de l’Internet. A chaque instant, nous travaillons pour le complexe numérico-industriel sans même y penser.

Vous parlez à ce propos de «digital labor», comment définiriez-vous précisément cette notion ?

C’est un travail implicite qui concerne tous les utilisateurs des technologies numériques, un travail qui ne dit pas son nom, alors qu’aucun individu connecté n’y échappe aujourd’hui. Il y a travail à chaque fois que nous publions, partageons, participons, laissons des «traces» par notre passage sur une plateforme numérique… Pour faire simple, le digital labor, c’est le travail de la présence en ligne.

Si le digital labor ne dit pas son nom, comment parler de travail ?

Il y a trois critères qui permettent de parler de travail. Premièrement, notre digital labor à tous est source de valeur. Or, cette valeur n’est pas créée mais capturée par les entreprises de l’ère numérique. Le deuxième point, c’est que notre performance est constamment mesurée. Ces mêmes entreprises déploient des efforts considérables pour quantifier nos comportements : où sommes-nous ? Combien de temps restons-nous connectés par jour ? Combien de like, combien de retweets engendrons-nous ? Si elles le font, c’est bien que nous produisons quelque chose qui a une valeur marchande, à savoir de l’information, des données qu’elles pourront utiliser et revendre pour nourrir leurs algorithmes. Enfin, ces entreprises subordonnent notre présence en ligne à des contrats. Ce sont les «conditions générales d’usage» – qu’elles nous demandent d’accepter pour utiliser leurs applications et leurs services. La fonction de ces contrats est justement de redistribuer la valeur produite entre l’utilisateur (laborer) et le concepteur (employeur de la plateforme).

Mais on n’a pas du tout l’impression de travailler quand on poste un statut sur Facebook ou que l’on tweete. Ce travail serait donc «inconscient» ?

Je ne suis pas à l’aise avec ce qualificatif. Je parle plutôt de «travail implicite». Le digital labor ne relève pas de la décision, il se passe complètement de la question de la volonté et échappe à l’utilisateur dans tous les sens du terme. Et ce n’est pas parce que ce dernier prend du plaisir à être sur Facebook que ce n’est pas du travail ! Dès lors qu’il y a création de valeur, il y a travail. Et le fait est qu’«on peut être heureux et exploité», comme l’a écrit le philosophe italien Carlo Formenti. Le capitalisme est une forme d’eudaimonia, une promesse de bonheur. Et ce bonheur devient une ruse pour pousser le travailleur à être productif. Le génie du digital labor, c’est que le travail n’a plus de limites, il devient interminable, 24 heures sur 24, 7 jours sur 7, sans que cette aliénation soit forcément ressentie.

Nous travaillons donc tout le temps au service de ce que vous appelez le nouveau «capitalisme cognitif» ?

Le travail s’insinue dans les interstices de notre quotidien, bien au-delà de l’entreprise, de l’usine, des lieux classiques de production. De plus en plus, la vie entière est «travaillée» à la maison, le week-end, en vacances, la nuit. Bien sûr, tout cela ne date pas d’Internet. La dynamique d’effacement des frontières géographiques et temporelles du travail était déjà engagée par le capitalisme prénumérique. «Il lui faut s’implanter partout, exploiter partout» : c’était Marx qui l’affirmait, en 1848 ! Mais ce phénomène s’est bien sûr accéléré durant la dernière décennie de la révolution numérique avec les Google, Amazon, Facebook, Twitter, etc. qui sont devenus les principaux lieux d’interaction sociale partout, tout le temps. Avec la transition numérique, ce nouveau capitalisme cognitif a inventé le travail omniprésent en opérant une reconfiguration pervasive de l’intimité.

Qu’entendez-vous par là ?

L’organisation de la vie laborieuse remontant à la révolution industrielle, selon laquelle nous voulions «huit heures pour travailler, huit heures pour nous instruire et huit heures pour nous reposer», a volé en éclats. Aujourd’hui, la production est partout, y compris dans les lieux qui relevaient des contextes personnels, la famille, la consommation, les loisirs. Nous travaillons quand nous pensons nous reposer : saviez-vous qu’en tapant un «captcha code» [des mots de passe permettant de distinguer un humain d’un ordinateur, ndlr], on numérise une page de livre pour Google Books ou on entraîne un algorithme ? Quand vous créez un profil Uber en tant que client, vous travaillez encore puisque vous notez le chauffeur et inversement. Et si vous portez un objet connecté, vous travaillez même en courant ou en dormant. Chaque minute de notre existence participe à une activité productive. Et, désormais, le travailleur est tout le monde. Le digital labor, c’est l’extension infinie du domaine du travail.

Y a-t-il une prise de conscience de cette forme d’exploitation numérique ?

Oui, mais cette prise de conscience est inégalement partagée. Nous savons tous quelque part que les Google, Apple, Facebook et autres Amazon font de l’argent avec nos requêtes, nos habitudes, nos comportements d’achat en ligne. Mais là où la prise de conscience est véritablement engagée, c’est autour du traçage des utilisateurs : la protection de la vie privée est un débat croissant dans la société civile, comme l’a montré la controverse sur la loi renseignement ou celle sur le droit à l’oubli, et tout récemment l’affaire Ashley Madison [le site de rencontres adultères dont les données utilisateurs ont été piratées, ndlr]. C’est une plus vaste question, qui porte sur l’appropriation des données réalisée par les plateformes numériques et, de plus en plus, les Etats. La question qui monte, c’est : que faites-vous de mes données personnelles ?

Faut-il rémunérer ce travail numérique ?

Il faut répondre à cette question avec beaucoup de précaution. Je ne suis pas pour une rémunération des utilisateurs, car on se retrouverait devant une clause léonine, une négociation totalement asymétrique à l’avantage des propriétaires des plateformes : que pèserait le digital laborer pour faire reconnaître sa juste valeur face à cette force énorme ? Rien ou presque. On en a déjà un exemple avec le service Mechanical Turk d’Amazon, qui paie quelques centimes des petites mains pour effectuer des microtâches répétitives : remplir des questionnaires, recopier des tickets de caisse, organiser des playlists, etc. Ce nouveau prolétariat numérique vend en fait son temps de vie pour une misère. Avec le travail à la donnée, on revient au travail à la pièce, à des scénarios à la Dickens ! Et la perversité du système est que, de surcroît, ce travail en miettes sert à entraîner des algorithmes qui précarisent à terme le travail humain. C’est l’exemple à ne pas suivre.

Alors que faire ?

Aujourd’hui, il n’y a pas de lieu de négociation avec les plateformes numériques. L’utilisateur se retrouve face à des boîtes mail «no-reply» et il est renvoyé aux fameuses conditions générales d’utilisation. C’est une bataille qu’il ne peut pas gagner. Il faut explorer des modalités alternatives. Il y a la piste d’une rémunération en droits d’auteur sur le mode «royalties de la donnée» – vous devez me payer quand vous utilisez un de mes posts ou une de mes photos sur Facebook ou Instagram, par exemple – qui avait été avancée par le chercheur et essayiste Jaron Lanier dans Who Owns the Future [éd. Simon & Schuster, ndlr]. Je trouve cette solution impraticable. Le principe même d’Internet, le partage sur Facebook, les RT sur Twitter font que la donnée personnelle est un enjeu forcément collectif. C’est pourquoi je défends plutôt l’idée d’un «revenu de base universel» pour tout le monde, qui serait financé par une taxation des plateformes numériques. Il faudra évaluer la valeur produite par ce travail invisible, et taxer les géants de l’Internet sera compliqué, mais pour le coup, c’est une mesure indispensable, qui relève du débat citoyen et de la décision politique.

Jean-Christophe Féraud QU’EST-CE QUE LE DIGITAL LABOR? d’ANTONIO CASELLI et DOMINIQUE CARDON, éd. INA, coll. «Etudes et controverses», 104pp, 6€.

Source: Antonio Casilli : «Poster sur Facebook, c’est travailler. Comment nous rémunérer ?» – Libération

Le digital labor et son ancêtre médiéval (Rue89, 11 sept. 2015)

Très intéressant : sur Rue89 Antonin Benoît, jeune chercheur en histoire, analyse les liens entre micro-travail sur Amazon Mechanical Turk et son ancêtre médiéval, le Verlaagssystem, à partir de notre livre Qu’est-ce que le digital labor ? (Ed. INA, 2015)

 

C’est un petit livre, paru l’air de rien à la fin de l’été, mais il est percutant et utile : l’ouvrage d’Antonio Casilli et Dominique Cardon, « Qu’est-ce que le Digital Labor ? » (éd. INA), dresse un large panorama de la recomposition des relations entre capital et travail à l’ère numérique, autour de la captation par les grands acteurs d’Internet de la valeur produite (ou plutôt émise) par les internautes.

Il n’est pas question ici que je résume le bouquin, ce serait fastidieux et ennuyeux, et ça a déjà été beaucoup mieux fait sur Rue89. Simplement, en le lisant, et en voyant l’affirmation de la nouveauté radicale que le numérique provoque dans ce rapport capital/travail (et qu’il serait bien bête de nier), il m’a paru assez frappant que leur description recoupait largement de vieilles organisations de l’économie pré-industrielle, qui disent peut-être quelque chose de l’avenir de ce mode de travail.

Parce que ça a beau être tout neuf, ce n’est pas la première fois que les détenteurs du capital cherchent à éclater et sous-traiter leur production en l’insérant dans le temps libre des ouvriers.

Source: Internet réinvente l’ouvrier du textile du Moyen Age | Déjà-vu | Rue89 Les blogs

Compte rendu de “Qu’est-ce que le digital labor ?” (Rue89 – L’Obs, 6 sept. 2015)

Dans le site d’information Rue89, Rémi Noyon dresse un compte rendu synthétique et incisif de Qu’est-ce que le digital labor ? (INA Editions, 2015).

J’ai réalisé que j’étais exploité (et que je ne pouvais rien y faire)

Rémi Noyon | Journaliste Rue89

C’est une drôle de théorie, qui commence à prendre corps, dans le sillage d’une autre. Les intellos de gauche s’intéressent à la théorie des communs et, dans les plis de celle-ci, à celle du « digital labor » – cette captation par des entreprises de la valeur générée par vos activités en ligne.

Le 27 août dernier, les sociologues Antonio Casilli et Dominique Cardon ont publié un court livre sur la question, « Qu’est-ce que le Digital Labor ? » (éditions Ina). C’est un dialogue incisif qui permet de faire le point sur l’avancée du concept. Je l’ai lu. Voici ce que j’ai retenu.

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Sur Facebook, vous bossez

(Sur Rue89 aussi)

La couverture du livre « Qu’est-ce que le Digital Labor ? »

Il n’est pas rare que mon rédacteur en chef conclue une discussion en suggérant de « demander à nos lecteurs de participer ».

Cela peut s’entendre comme un appel désintéressé. N’est-ce pas le fondement même d’Internet de permettre cette mise en réseau ?

Antonio Casilli y décèle plutôt un travail gratuit. Pour lui, nos traces, nos flux, nos micro-actions sont devenus la matière première du « capitalisme cognitif » – celui qui délaisse les usines pour les universités, les produits de consommation pour la connaissance.

Il ne s’agit pas que des commentaires laissés sur Rue89. Mais aussi des « like », des tweets, des recommandations postées sur TripAdvisor, des données émises par nos téléphones, de nos historiques de recherches, de nos photos publiées sur Instagram ou Flickr, de nos achats sur Amazon, etc.

Au passage, ce travail fait de vous, de nous, une « armée de réserve de “travailleurs qui s’ignorent” ». Ensemble, nous mettons la pression sur les journalistes, l’industrie culturelle, et tout ces métiers susceptibles de se faire « ubériser ». Il existe même des sites d’actualité qui font traduire leur contenu par des internautes désireux d’apprendre une langue…

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Des gestes simples

Tu sais cliquer ?

Le « digital labor » ne demande pas des compétences ou des talents particuliers. Le cas le plus flagrant est peut-être celui du Mechanical Turk d’Amazon. Cette plateforme met en relation des travailleurs qui réalisent des tâches simples, des « HITS », pour des entreprises qui les rémunèrent pour écrire un commentaire, cliquer, regarder une vidéo, etc.

Mais la logique du « digital labor » va bien au-delà. Ce travail, parcellaire et atomisé, n’est pas toujours rémunéré. En fait, il ne l’est que rarement. Pour « vérifier que vous n’êtes pas un robot », Google vous demande parfois de déchiffrer des mots déformés. Sans le savoir, vous aidez à la numérisation de Google Books. Gratuitement.

A chaque fois, le travail fourni consiste en des gestes simples, insignifiants. C’est l’idéal du travailleur flexible – le contraire de l’homme de métier. Nous ne sommes pas pas très loin du « travail en miettes » de Georges Friedmann, qui décrivait, avant l’invention d’Internet, l’assèchement du travail par l’hyper-spécialisation. Dans ce schéma, les hackers seraient l’incarnation moderne des ouvriers spécialisés qui pouvaient – quel luxe ! – choisir leur employeur.

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N’allez plus aux hackathons !

On vous a menti

Tout le génie d’une « plateforme » est d’attirer un essaim, une « multitude ». Et de le laisser bosser à sa place.

Ce fonctionnement de l’économie numérique, cette captation de valeur, serait la face libérale de l’éthique « hacker », héritée de la contre-culture des années 60. Celle-ci a insisté sur les comportements positifs, gentillets, du Web : la participation, la générosité, le don, etc.

Il ne reste que peu d’enchantés qui pensent que cette collaboration se fait de façon désintéressée, pour la beauté du geste. L’analyse la plus courante veut que les contributeurs de Wikipédia, par exemple, donnent de leur temps afin de gagner des points de réputation. Cette approche est le début de l’analyse « économique » d’Internet : lorsque l’on quantifie, il n’est plus très compliqué de calculer un prix.

En allant au bout de cette logique, la théorie du « digital labor » retourne le discours « hacker » comme un crêpe pour affirmer que les contributions s’apparentent à du travail. Et, que pour le moment, il est payé peau de zob. On vous a menti ! Vous avez été couillonné ! N’allez plus aux hackathons !

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L’exploitation heureuse

Oui oui

L’exploitation devient parfois évidente. En 2014, les photographes adeptes de Flickr se sont agacés de voir que la plateforme annonçait la vente de posters tirés de leur œuvres. Pourtant, celles-ci avaient été publiées avec autorisation de réutilisation commerciale. Rien n’empêchait donc Flickr d’en tirer profit.

A en croire Casilli, ce travail diffus ne serait guère visible autrement que par ces petits symptômes. La raison en est simple : « face à un haut degré d’exploitation, nous connaissons un faible degré d’aliénation ». Pour le dire autrement, nous serions exploités de façon heureuse (à se demander donc si c’est de l’exploitation, mais nous y reviendrons plus bas).

« L’aliénation est largement supportable […] parce que son extraction de valeur se base sur les mêmes technologies sociales qui entretiennent le lien personnel entre l’usager-travailleur et sa communauté. »

En tentant d’identifier un autre symptôme de ce travail non-reconnu, Antonio Casilli ose une hypothèse audacieuse : les trolls seraient des luddites, comme les canuts lyonnais qui mettaient leurs sabots dans les machines à tisser pour perturber l’industrialisation.

« Si toute participation à la vie en ligne peut être assimilée au travail, le fait d’empêcher cette participation peut, à mon avis, parfois être assimilé à une forme de sabotage. »

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Inutile de courir, il n’y a pas de salut

Sauf dans une zone blanche

Il ne s’agit pas seulement de « like », ou de messages postés depuis l’écran d’un ordinateur de bureau. Les smartphones – et l’internet des objets – nous font basculer dans une production encore plus diffuse, plus collante. Les données émises par nos téléphones – sans aucune action de notre part – ont une valeur économique. Nos déplacements, smartphones en poche, deviennent un travail.

Les « trois 8 » (travailler, s’éduquer, se reposer) ont été remplacés par les « trois 24 ». Tout se mélange. Travail et loisir. Vie privée et vie professionnelle. Il est donc illusoire d’espérer échapper à ce travail de tous les jours, de toutes les heures. Sauf à casser vos smartphone. Et votre GPS. Et tous les objets qui intègrent une carte RFID (carte de transport, de cantine, etc.).

Cette emprise sur le quotidien est décrite par des néologismes comme « weisure » (contraction de « work » et « leisure ») ou « playbor » (« play » et « labor »). Elle n’est d’ailleurs pas exclusive au numérique : dans les magasins Ikéa, vous n’achetez pas un meuble, mais le privilège de le monter vous-même.

« En poussant à sa limite extrême ce raisonnement, nous pourrions identifier la forme paradigmatique du digital labor dans l’acte même d’être en ligne. »

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Des conséquences très concrètes

Uber ou l’économie des miettes

Cette économie collaborative n’est pas un nuage lointain. Elle rejaillit sur la sphère réelle – à supposer qu’une telle distinction ait encore un sens. C’est le cas avec Airbnb, Uber ou TaskRabbit, qui « met en contact une personne prête à réaliser une tâche simple avec une autre personne à l’emploi du temps trop chargé pour la réaliser elle-même ».

Antonio Casilli n’est pas trop fan de ces « services » :

« [Le travailleur] se retrouve dans une situation de précarité extrême, car son revenu n’est pas garanti, pas plus que son flux d’activés : la flexibilité est totale. »

Une fois cela posé (ainsi que la question des accidents du travail, des cotisations, des règlements), il suggère d’être méfiant vis-à-vis des applications qui vous promettent de sauver le monde. Ce sont, si l’on suit la pente théorique du « digital labor », des moyens d’étendre l’empire du capitalisme sur nos vies.

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La solution ? Le fric pour tous

On peut rêver

Il existe bien une esquisse de syndicat pour les travailleurs du Mechanical Turk d’Amazon. Le site « We are Dynamo » est né de la rencontre entre des chercheurs de Stanford et des « turkers ». Il fédère des utilisateurs de la plateforme et leur permet de parler d’une seule voix face à Amazon.

C’est la version de gauche. A droite, les libéraux voudraient créer des micro-royalties. Chacun deviendrait l’entrepreneur de ses données. Et chaque action en ligne ouvrirait le droit à une mini-redevance. Mais c’est déjà reconnaître que ses informations, souvent intimes, sont une marchandise comme une autre.

Casilli préfère donc l’idée d’un revenu de base qui viendrait sanctionner ce travail diffus.

Avant d’en arriver-là, il espère que la reconnaissance du « digital labor » permettra de réformer la fiscalité du numérique. Reconnaître que la valeur est créée par les utilisateurs français de Facebook limiterait le rapatriement des profits vers Dublin.

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Une théorie de vieux marxiste ?

Trop de chiffres, trop de lettres

Bon. Dominique Cardon, qui donne la réplique à Antonio Casilli, se demande si tout ce qui précède n’est pas une théorie de marxiste non-assumé (je résume). Il est vrai que le « digital labor » s’inscrit bien dans les notions de « surtravail », de « plus value » et de spoliation.

Cardon n’est pas surpris. Si ce type de théorie se développe, c’est parce qu’Internet a perdu son innocence. C’était un univers sympathique, où le travail n’était pas considéré comme du travail. Puis son usage s’est massifié, les sites marchands se sont développés, il a été question de surveillance et de « gouvernance algorithmique ».

En se « noircissant », Internet a invité les chercheurs à le considérer autrement, à y ré-injecter les concepts de l’économiste (contrat, échanges, rémunérations).

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Ou de dandy blasé ?

C’était mieux avant

Mais Cardon va plus loin (le coquin) :

« Le paradoxe est que, ayant étonnamment “réussi”, Internet donne à tous ceux qui ont participé à ses premiers pas, le sentiment que son esprit initial, une enfance libre et indocile, a été confisqué. »

Délogés de leur avant-garde, les théoriciens d’Internet auraient cherché une nouvelle position critique. Après s’être plongés dans des contributions complexes (textes, codes, etc.), ils n’estimeraient guère la vulgarité des « petites participations » tel que le fait de « liker ». D’où la constitution, un peu condescendante, d’une théorie de la servitude volontaire. Celle-ci ne décrirait que mal une réalité complexe et infantiliserait les internautes :

« C’est par exemple ce qui arrive si vous allez expliquer à la blogueuse tricot passionnée et enthousiaste qu’elle est, en fait, en train de “travailler” pour enrichir une variante subtile du capitalisme qui l’a mise à la besogne sans qu’elle ne se rende compte de son aliénation. »

Source: J’ai réalisé que j’étais exploité (et que je ne pouvais rien y faire) – Rue89 – L’Obs