Contre la loi italienne qui criminalise les sites qui parlent d'anorexie (Wired, Italie, 7 août 2014)

Le magazine Wired Italia propose un article du journaliste Fabio Chiusi qui interviewe le sociologue Antonio Casilli à propos du nouveau projet de loi italienne qui prévoit des peines de prison pour les auteurs de sites “pro-ana”.

Contro il carcere per chi incita all’anoressia sul web

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C’è una infinità di ragioni per opporsi al progetto di legge bipartisan (Marzano, Binetti, Carfagna e altri) che si propone di creare un articolo 580-bis del codice penale che prevede “la reclusione fino ad un anno e con una sanzione pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000” per “chiunque, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, istiga esplicitamente a pratiche di restrizione alimentare prolungata, idonee a provocare l’anoressia, la bulimia o altri disturbi del comportamento alimentare, o ne agevola l’esecuzione

(Non fatevi ingannare da quell’anche: “L’oggetto di questo articolo, infatti, sono quei siti pro-ana e pro-mia”, precisa Michela Marzano su Facebook)

Si potrebbe infatti obiettare che non si capisce per quale ragione la norma si debba applicare all’anoressia e non, per esempio, a chiunque, con qualsiasi mezzo, istighi esplicitamente a un consumo di tabacco idoneo a sviluppare cancro ai polmoni, o di droghe idoneo a sviluppare disturbi psichiatrici, o di gioco d’azzardo idoneo a sviluppare dipendenza patologica. E dove ci si ferma, con la repressione – offline e online? Cosa significa esattamente “agevolare” un vizio o un disturbo? La prospettiva di una norma liberticida è dietro l’angolo.

Ancora, inserendo la proposta nel contesto socio-culturale in cui siamo immersi, ci si potrebbe chiedere allora perché non dovrebbero finire in galera anche gli stilisti, i pubblicitari, i responsabili del marketing, gli ideatori di palinsesti televisivi o i responsabili delle scuole di danza e di tutti quegli ambienti che promuovono una cultura della perfezione attraverso il culto della magrezza a ogni costo, definendo più o meno implicitamente – spesso, ben poco implicitamente – deviante, diverso, inadeguato chiunque non soddisfi requisiti fisici che – altrettanto spesso – di sano non hanno assolutamente nulla. In quale misura tutti questi soggetti contribuiscono all’insorgere della patologia: maggiore o minore dei siti pro-ana e pro-mia che la norma si propone di combattere? Chi lo stabilisce? Come?

Andando alla ratio della legge, si potrebbe poi chiedere ragionevolmente per quale motivo, come si legge nel preambolo, “non è certo compito del Parlamento interrogarsi sulle dinamiche che portano un numero sempre maggiore di persone a soffrire di disturbi del comportamento alimentare. Né è sua vocazione comprendere e contrastare le cause profonde che, anche nel nostro Paese, hanno portato al moltiplicarsi di questi fenomeni“. Ma come, al Parlamento non interessa capire su cosa sta intervenendo, esattamente? E non interessa intervenire sulle “cause profonde“? E allora che interviene a fare? Per consentire ai proponenti la solita passeggiata mediatica e non intervenire nella migliore delle ipotesi, ammesso ci sia una qualunque chance di successo per il testo di legge, che su un aspetto marginale e discusso (come vedremo) della patologia?

Ci si potrebbe poi chiedere per quale ragione si pensi che un problema complesso e in buona parte ignoto come l’anoressia e in generale i disturbi alimentari si possa affrontare mettendo in primo piano l’approccio punitivo, della repressione normativa (a proposito, come stanno le carceri italiane?), e lasciando solo sullo sfondo la necessità di promuovere maggiore comprensione del problema (giusto, al Parlamento non interessa), sviluppare strutture più adeguate e funzionanti per il supporto e la formazione delle famiglie e dei malati stessi, che necessitano di maggiori attenzioni e competenze ben prima che di strumenti normativi a cui ricorrere – specie quando, come spesso accade, i gestori di quei siti sono i malati stessi. Così che viene il sospetto, come già in altri campi (vedi la questione del bullismo ridotta a una serie di proposte normative per il contrasto del cyber-bullismo), che si preferisca la via legislativa per ovviare all’impegno e alla dedizione (molto spesso, lontani dai riflettori dei media) necessari a meglio accompagnare il malato e i suoi cari durante questo terribile e a volte lunghissimo male.

Ma nessuno di questi sarebbe il punto fondamentale. Che è invece, a mio avviso, il fatto che la crociata contro i siti pro-ana e pro-mia parte da una serie di presupposti errati. Il primo è che siano unicamente fattori negativi, che favoriscono lo sviluppo e il radicarsi della patologia. A quanto testimonia una ricerca, cominciata nel 2010, di un gruppo multidisciplinare di studiosi di università in Francia e Gran Bretagna, va invece “ripensata la stessa nozione di pro-ana“. Studiando per tre anni con un misto di questionari, interviste, modellazione statistica e simulazioni al computer la costellazione di migliaia di siti francesi e inglesi analoghi a quelli che il legislatore italiano vorrebbe far sparire a ogni costo da Internet, la conclusione degli studiosi è opposta a quella di Marzano, Binetti e colleghi.

Prima di tutto, “la glorificazione dell’anoressia“, si legge, “è ben lungi dal comprendere tutte le prassi e gli atteggiamenti” presenti in quei siti. Piuttosto, “sono soprattutto self-help“, spiega il docente e ricercatore a Parigi, Antonio Casilli, che ha diretto il team che ha svolto lo studio – l’unico, precisa, ad avere “analizzato la struttura delle reti sociali, non solo il contenuto dei siti“. Luoghi che più che fare proselitismo, insomma, compensano i disservizi della sanità, le zone di “deserto medico” (che si diceva?).

In secondo luogo, la censura è “inefficace“: “la repressione non serve“, dice ancora Casilli, perché i siti migrano e si rinnovano. Anzi, si legge nel rapporto, è “dannosa“, dato che il tentativo delle community di nascondersi allo sguardo dei censori le sottrae anche a quello della comunità medica. Come sempre, mettere la polvere sotto al tappeto restituisce una bella immagine della stanza: peccato sia falsa, e che così facendo – fuori di metafora – si perda completamente la possibilità di usare quei contenuti per meglio comprendere le dinamiche della patologia.

Terzo, quelle comunità hanno un valore anche positivo. Se la malattia comporta la perdita della volontà di condividere il momento del pasto, il confronto all’interno di quei siti spesso rappresenta l’unica opportunità di recuperare una qualche forma di convivialità e condivisione della propria esperienza col cibo. Un fattore fondamentale e presente anche nell’esperienza vissuta in prima persona da Zoe Thomson, e raccontata sull’Huffington Post: “Per una malattia che può portare a un profondo isolamento“, scrive, “il senso di una comunità e di una battaglia condivisa che si può reperire nelle comunità pro-ana può essere positivo. Improvvisamente non sei più sola con il tuo disturbo, e puoi parlarne con altre persone. Si formano delle amicizie. Ci si aiuta. Si potrebbe argomentare che queste amicizie siano tossiche“, conclude, “e che l’aiuto sia per uno scopo negativo. Ma molte amicizie sono tossiche, e nessuno parla di metterle al bando“.

Altro risultato importantissimo“, continua Casilli, è che “se lasciati a se stessi i siti convergono verso posizioni moderate“, invece di radicalizzarsi. Che tradotto, significa che si riscontra una “maggiore apertura verso la collaborazione con i medici“.

Quanto alla “diffusione esponenziale” di siti pro-ana di cui parla il progetto di legge, lo studio replica che in Francia e Gran Bretagna il numero è stabile. Non sono a conoscenza di un censimento altrettanto rigoroso in Italia, ma il sospetto che si tratti di allarmismo – visto il resto della norma, la mancanza di dati sull’evoluzione del fenomeno a supporto dell’affermazione, e visto quanto testimoniato nel caso della falsa emergenza cyber-bullismo – appare più che giustificato.

I disturbi alimentari sono una questione terribilmente complessa, e per quanto sia apprezzabile il tentativo del Parlamento di fornire strumenti per una diagnosi precoce del problema, sarebbe bene concentrarsi su come affrontare quella complessità piuttosto che ridurla più o meno esplicitamente a una questione di censura e repressione. E se proprio si vuole intervenire su Internet perché non pensare piuttosto a nuovi e migliori spazi di discussione online – come scrivono Casilli e colleghi – per integrare una cura che viene “spesso” considerata inadeguata?