Trolling, ironie et la "double victimisation" (La Repubblica, 07 Sept. 2014)

Dans le quotidien italien La Repubblica, le journaliste Fabio Chiusi interviewe le sociologue Antonio Casilli à propos du phénomène du trolling.

Prendetela con ironia È l’arma perfetta per difendersi dai troll

QUANDO lo scorso ottobre è stato assalito dai troll, i disturbatori da tastiera che sabotano conversazioni online a suon di insulti e argomenti fuori tema per il loro solo godimento, il cantautore James Blunt ha trovato un’arma più efficace rispetto a maledire il web: usare un pizzico di sana ironia. «Gesù, un nuovo disco di James Blunt, c’è qualcosa d’altro che potrebbe andare peggio?», si leggeva su Twitter. «Sì, potrebbe cominciare a twittarti », la risposta, azzeccatissima. Blunt, oltre a farsi pubblicità per il nuovo disco, ha fornito al mondo un esempio di come convivere con un fenomeno nato insieme a Internet, quasi certamente ineliminabile e che in ogni caso non si potrà cancellare senza rendere la Rete «un ambiente più ostile per coloro che la usano per ridurre l’odio e aumentare la comprensione», scrivono Rebecca MacKinnon ed Ethan Zuckerman. Meglio, insomma, imparare strategie adeguate per depotenziare le tattiche dei provocatori, “trollarli” a nostra volta. Un buon punto di partenza è riconoscere la complessità della questione, e liberarsi di alcuni falsi miti.

Il primo è l’idea che il problema sia l’anonimato in Rete. Un concetto derivato dagli studi, fin da metà degli anni Novanta, dello psicologo John Suler e del suo “effetto disinibizione online”, secondo cui sarebbe l’assenza di limiti percepiti – e forniti dai segnali non verbali delle comunicazioni faccia a faccia – a incentivare provocazioni e molestie.

«Gli psicologi stessi devono ancora dimostrarne il fondamento scientifico», dice Antonio Casilli, docente di Digital Humanities a Parigi e al lavoro su un volume sulla politica del trolling. Del resto, su Facebook siamo con nome e cognome, ma i troll impazzano. Il secondo è l’idea, avanzata da un recente saggio accademico, per cui siano soggetti sadici e narcisisti. Falso, risponde Casilli: quello studio contiene «fortissime distorsioni metodologiche »; e anche se non le avesse, «dare del sadico a un troll può finire per rinforzarne il comportamento ». E infatti diverse guide su come affrontarli predicano al contrario di «ucciderli con la gentilezza».

Il programmatore Shlomi Fish ha adattato a Internet le prescrizioni contenute in un saggio di terapia cognitiva del 2008, Feeling Good: The New Mood Therapy . I capisaldi? Rispondere evitando fallacie logiche, comunicare chiaramente e senza andare sul personale, non prendere in giro. Una tattica tuttavia controversa, che potrebbe confondere trolling ed espressione del dissenso. Altri hanno deciso di affrontare il proprio troll faccia a faccia. Il presentatore televisivo Noel Edmonds l’ha fatto con uno che aveva aperto una pagina Facebook che incitava alla sua uccisione, e il risultato sono state scuse e una stretta di mano. Certo, non sempre è possibile scherzarci sopra o giungere a una riconciliazione: chiedere a Zelda Williams, aggredita su Twitter nei giorni della morte del padre, l’attore Robin, o alle famiglie delle ragazze portate al suicidio anche dagli insulti online. Ma un recente articolo del New York Times a firma Stephanie Rosenbloom spiega che impiegare strategie di contenimento del messaggio dei molestatori è comunque utile. Può significare allontanarsi momentaneamente dalla tastiera, per non rispondere a caldo e alimentare così la spirale distruttiva; leggere gli insulti a voce alta o alterandola in modi buffi; addirittura sfruttarli per ricordare a se stessi che si è l’opposto di ciò che è scritto e che ferisce, o per chiedersi se a ferire non sia anche una qualche dose di verità nascosta tra le asperità e le insensatezze degli attacchi ricevuti.

Serve tuttavia anche una guida alle guide anti-troll. Casilli ne sta stilando una lista e, osservandola, vi ha trovato una costante: «in quasi tutte le strategie passate in rassegna, la responsabilità ricade sulla vittima. E anche il pezzo del New York Times inizia con l’invito a essere forti, avere la pelle dura». Un’idea, prosegue, «legata a una cultura machista, anti-intellettualistica » (quella del contesto sportivo, da cui proviene) che finisce per vittimizzare la vittima due volte: «la prima, dal troll; la seconda da chi le sta accanto e dice “se ti fai ferire è perché hai una tua debolezza”».

«Non c’è una strategia a prova di errore per evitare del tutto persone sgradevoli online», conferma Andrea Weckerle, autrice del volume Civility in the Digital Age . Tuttavia «disporre di una forte rete di supporto che contribuisca a mitigare i danni è essenziale». «Anche lasciare una impronta positiva online è importante», aggiunge, «e di aiuto nel diluire le informazioni negative diffuse dai troll sul proprio conto». Vale a dire: porsi in modo dialogante, essere presenti in Rete mostrando le proprie qualità umane e dialogiche, è essenziale per impedire che l’odio diventi virale.